A chi ha ancora la forza di lanciare i cori.
Sei lì, hai una curva piena di persone, di amici che aspettano da te un cenno, una voce da portare a quelli che sono in campo. Sei una sorta di direttore d’orchestra e capopopolo allo stesso momento.
Non so se avete mai notato una cosa. Ci sono due modelli di lancia cori: quelli che si prendono il ruolo e quelli a cui viene dato.
Quando ci sono i primi le curve non cantano mai, con i secondi invece un coro diventa una sola voce, un solo corpo che spinge la propria squadra.
È un mestiere di merda. Non prendi un soldo, ti sbatti, non vedi la partita – se non dalle facce e dalle reazioni delle persone che hai di fronte – e tieni nelle recchie, per tutto il tempo, un tamburo. Dopo ogni goal, per giunta, rischi di volare giù.
Dovete sapere che esiste una chat di Whatsapp nascosta e carbonara, con tanto di immagine profilo di uno dei capotifosi, ivi sono presenti alcuni storyteller di questo sito.
Mentre si cercava di capire cosa scrivere e come fare un pezzo (in realtà è tutto un inciuciare e parlare delle Barche di crudo della Pescheria Coscia) – ndr l’ala milanese della redazione rosica d’invidia -.
Insomma mi è venuto in mente lui, Depè. Si, lui non era un lancia cori.
Non ha mai pensato che fosse un lavoro. Ma era una missione. E in certo senso la sua missione l’ha portata avanti negli anni: quella di sbaraccare e andare nell’altra curva per riempirla di persone che si chiamavano Rachid o Youssuf o Carlos.
Perché Marsiglia, la città dove viveva Depè, è una terra di razze e sangue mischiate. È terra di mare e di portuali, di uomini della classe operaia.
E lui in curva con gli skinhead non ci voleva stare. Così se li portò nell’altra curva e cominciò a far sentire musica, quella che veniva sparata fuori dai sound system. Con l’odore acre di fumogeni, quello pungente della ganja,
Diventò amico di Manu Chao. Si, proprio lui, il parigino. Sognavano di fare cose insieme, tipo quelle della clip di Santa Maradona. Creare un mega raduno per finanziare il suo gruppo.
Lui capì che quel sogno, quella missione, non doveva concludersi solo al fischio finale. Voleva e doveva essere Depè anche dopo, quando si faceva da tramite con gli assistenti sociali per aiutare i ragazzi della curva che non riuscivano a mangiare o che vivevano in famiglie devastate. Sempre a modo suo, senza la maglietta addosso ispirandosi ai tifosi dell’Aek in casa come ai -12 di Berlino.
“Prima che tu consegni la prossima, vorrei offrire la mia medaglia a colui che tanto simboleggia questa città, Depé“.
Bernard Tapie durante la premiazione ai giocatori in consiglio regionale
Tapie lo usò come arma politica, ma anche Depè – quella vecchia volpe – lo usò per far entrare gratis i ragazzi, lo usò anche quando si trattava di far rilasciare gli ultras arrestati.
Quando venne a galla quello che era diventato l’OM fece un passo indietro. Ma decise di non mollare perché si divertiva a trovare nuovi compagni di strada, caricarli nel suo pulmino scassato – una masnada di ragazzi con il suo stesso sogno – e andare nei campi di provincia a tifare. Che poi, le loro, non erano vere e proprie trasferte. Diventavano notti di grigliate, di vino, di parole e di sensimilla.
Alla fine, rimase solo. Perché quel calcio moderno, il suo Olimpique de Marseille – con le maglie dorate – già non gli apparteneva più. Restò solo: senza casa, né abiti, a farsi prestare divani e magliette da chi gli poteva dare un aiuto.
Era rimasto solo a progettare una fuga su un cargo diretto in Argentina. Come aveva già fatto altre volte, nascondendosi per vedere l’OM in giro per l’Europa. Rimase solo, con i suoi libri. Fino a quando, una notte, un aneurisma lo prese per mano e lo condusse altrove.
Rimase solo anche sotto i cipressi, intanto i sociologi dell’università studiavano il suo caso.
Resto solo, è vero, ma anche con tanta gente, tutti quelli che quel giorno ricordarono chi fosse e cose rappresentasse. Gli ricordarono quanto era stato prezioso per la città.
I calciatori entrarono in campo e, durante il minuto di silenzio, si tolsero le magliette girandosi verso Le Virage Nord.
Ma avvenne un’altra cosa, un fattore che nessuno aveva calcolato. Durante quel minuto di raccoglimento lo striscione del suo gruppo prese fuoco.
Nessuno intervenne per domare le fiamme, sapevano che dietro quella torcia buttata male, in fondo, c’era lui.
Due anni dopo, quel suo amico mezzo basco e mezzo parigino decise, durante il suo mega tour europeo, di fare una sola data in Francia: al Velodrome, per finanziare il suo gruppo.
Continua ancora a farlo, in omaggio del suo amico.
Perché Manuel è fedele alla stele che lo ricorda all’ingresso della Virage Nord, una stele che porta il suo nome:
I GIOCATORI PASSANO I TIFOSI RESTANO.
Consigli di lettura:
E di visione (in francese).