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Porque cantando se alegran,

        cielito lindo, los corazones.

        (Cielito Lindo – Quirino Mendoza y Cortés)

21 giugno 1986. Estadio Universitario di San Nicolas de los Garza, area urbana di Monterrey. Le note ed i versi di Cielito Lindo riempiono l’attesa ed accompagnano verso il grande appuntamento con la storia la popolazione messicana. I mariachi intonano all’infinito quello che è l’inno nazionalpopolare di un Paese che si ritrova ad ospitare le stelle del pallone appena sedici anni dopo quella edizione del ’70, passata alla storia per l’epica semifinale tra Italia e Germania, finita  4 a 3 per noi, e per le prodezze di Pelè che guidò al titolo il Brasile. Quella volta fu Gigi Riva a porre fine al sogno messicano, spazzando via con una doppietta la nazionale padrona di casa che era pure passata in vantaggio. Riva, doppietta, e Rivera, con il gradito cadeau di un autogol, portarono l’Italia di Valcareggi fino all’appuntamento con la partita che sarebbe passata alla storia, prima di entrare nel mito.

Sedici anni dopo, i messicani ci riprovano. Fino ai quarti sono sicuri, spavaldi, quasi perfetti. In panchina li guida un giovane commissario tecnico che sa di calcio e di vita. Dalla lontana Jugoslavia, dopo una finale di Coppa Campioni persa da calciatore col Partizan Belgrado contro il Real Madrid, ha capito che deve cercare altrove la fortuna. Comincia il suo giro del mondo dalla Svizzera, poi Francia ed infine…Messico. E’ qui che comincia la nuova vita di Velibor Milutinovic. Per tutti, semplicemente “Bora”. Sorriso furbo e cervello sempre in movimento, questo ex centrocampista della scuola dell’Est Europa trova l’amore e la fortuna dall’altra parte del globo. Sposa la senorita Maria, figlia di un ricco proprietario terriero, ed allena i Pumas, la squadra con cui ha chiuso col calcio giocato. Quando la Colombia deve rinunciare all’organizzazione della Coppa del Mondo, la Fifa si affida al Messico e la locale federcalcio decide di portare alla guida della nazionale una ventata di…Bora. Milutinovic sa tenere insieme il gruppo, coccolando i suoi calciatori. Uno di questi, tale Abuelo Cruz, chiedeva sempre di prenotare una camera doppia. “Perché – come ricorda lo stesso Bora in una intervista a “Repubblica” – Dio viaggiava con lui. Anche in pullman e a tavola, bisognava sempre tenere il posto per il Signore. Ci sfiancava con le letture della bibbia, ora per fortuna è finalmente diventato un pastore della chiesa”.

Milutinovic ai tempi dell’avventura con la nazionale Usa al Mondiale ’94 (getty images)

Non c’è più Gigi Riva, c’è sempre Cielito Lindo a fare da sottofondo alle avventure di Hugo Sanchez e compagni, ma quel 21 giugno dinanzi a loro ci sono i panzer. La Germania è programmata per vincere o, almeno, per arrivare in finale. Gioca senza mostrare tremori ed incertezze al cospetto dei padroni di casa e di quei 44mila che cantano e gridano senza mai stancarsi e, quando la palla non vuole andare dentro, capisce che la questione andrà risolta ai rigori. Come quattro anni prima, a Siviglia, contro la Francia di Platini. La Germania non trema, il Mexico sì. Allofs, Brehme, Matthaus, Littbarski. E’ la filastrocca che intonano i tedeschi dagli undici metri. Nessuna esitazione, nessuna pietà. Rincorsa, tiro, gol. Cielito Lindo, sarà per la prossima volta. L’importante è cantare senza smettere di credere o di sperare, in fondo.

Bora capisce in quel momento che è tempo di cambiare orizzonti. Arriva in Italia, in Friuli, per la precisione, ma non a Trieste, dove la bora è di casa. Va ad Udine, chiamato da Gino Pozzo, per riportare in A la squadra bianconera. Troppe sconfitte esterne e qualche scivolone interno, però, pongono fine alla sua avventura italiana. Lo rileva Sonetti che, l’anno dopo, centrerà la nuova promozione in A alla guida dell’Udinese. In Italia, però, Bora tornerà. Lo sente. Accade. Italia ’90 è il momento che tutti gli italiani stavano aspettando. Le squadre di club hanno fatto incetta di Coppe nelle varie competizioni europee (Milan, Samp e Juve hanno sbaragliato la concorrenza) ed il Mondiale ci strizza l’occhio. Tra le nazionali qualificate c’è anche quella della Costa Rica, che nel 2014 ci avrebbe addirittura battuti. L’allena Milutinovic, che al Mondiale si sente a casa. Essersi qualificati appare già di per sé un miracolo. Bora, però, vuole stupire. La sua squadra vince all’esordio con la Scozia e si appresta a sfidare il Brasile. Solo che…

“Senor, abbiamo finito le divise”. Eh, già. Avranno detto più o meno così i magazzinieri costaricensi al loro C.t. alla vigilia della partita col Brasile. Bora non si abbatte. Telefona a Boniperti, il presidentissimo della Juve, e gli chiede aiuto. Arriveranno 44 divise, ovviamente bianconere. La squadra va in campo, a Torino, con un look inedito, perde di misura ma è felice. Dopo la vittoria sulla Svezia, si riscrive la storia. La Costa Rica è agli ottavi. Diavolo di un Bora!

Al primo turno dell’eliminazione diretta, però, c’è la Cecoslavacchia dell’ariete Skuhravy, che arriverà al Genoa in seguito. Segna una tripletta nel 4 a 1 per i suoi, ma per la Costa Rica è pur sempre fiesta. Fatta la storia, Bora ne cerca un’altra da scrivere. Nel ’94 è sulla panchina degli States, padroni di casa, che conduce fino agli ottavi dove il Brasile ne ferma la corsa. Poi Nigeria e Cina per altre due avventure mondiali fino alla panchina dell’Iraq, dove, però, non riesce ad andare oltre una partecipazione dignitosa alla Confederations Cup. Oggi si gioca in Qatar la gara tra Costa Rica e Germania. Facile immaginare per chi possa battere il cuore di Bora, l’uomo nato tre volte (per qualcuno nel 1944, per la Fifa nel 1939, per altri ancora nel 1940) che da queste parti ha allenato, – perché vi state meravigliando di ciò? – , quando il Mondiale qui era una idea men che astratta. Ci voleva il soffio di Bora, oltre a tutto quello che è venuto fuori di recente, per portare il pallone alla sua massima espressione fin da queste parti. Sfidare di nuovo la Germania, di certo, gli sarebbe piaciuto.

Il Mondiale, del resto, è casa sua. Ovunque.

Redazione

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