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‘LELE’ MESSINA, IL BOMBER GRANATA CHE FECE PIANGERE I SUOI EX TIFOSI DELLA CAVESE

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Quando l’appassionato del pallone decide di rovistare nella memoria, tentando così di estrapolare dal bagaglio dei ricordi il gesto tecnico in grado di far dimenticare gli spettacoli spesso noiosi del calcio moderno, le prime immagini ad emergere sono quelle consegnate ai posteri dalle giocate dei campioni immortali.

Il gotha, inutile pure sottolinearlo, è rappresentato dai soliti noti: Diego Maradona, Pelè, Marco Van Basten, Ronaldo, Roberto Baggio e pochi altri ancora. 

La loro funzione, fondamentale nel preservare la passione per questo sport meraviglioso, è di riconciliarci con la personale necessità del godimento estetico che accompagna un qualsiasi match a cui assistiamo.

Il piacere che traiamo dalle loro imprese è figlio della classe cristallina che trasuda dal gesto tecnico individuale, dalle eleganti movenze dell’interprete su cui focalizziamo la nostra attenzione.

Si tratta, però, di un diletto intellettuale, che parte dalla testa e finisce per toccare le corde dell’anima.

Poi esistono gli artigiani della sfera di cuoio, il più delle volte sprovvisti di doti calcistiche capaci di inebriare l’intelletto degli osservatori, ma sempre abilissimi a nutrire la sfera emotiva degli appassionati.

Questi protagonisti secondari del pallone, pur essendo sostanzialmente sgraziati nella loro recita sul prato verde, sanno parlare come pochi alla pancia del tifoso, esibendo scaltrezza e capacità di rendere indimenticabile una prestazione attraverso quelle piccole malizie che spesso decidono le sorti di una partita e, in alcuni casi, addirittura un campionato.

Uno di questi calciatori era sicuramente Gabriele Messinadetto ‘Lele’, nativo della pitagorica Crotone, protagonista indiscusso, con i suoi 15 gol realizzati, della stagione granata 79-80.

Il buon Gabriele non era bello da vedere, con quel suo fisico che imponeva sacrifici per non superare la linea di demarcazione che separa un corpo sufficientemente atletico da uno tendente all’ingrasso, ma sapeva essere rapace e risolutivo come pochi altri in area di rigore.

La sua corsa era caracollante, le braccia quasi cascanti nell’inseguire il pallone, con le mani saldamente strette alle estremità delle maniche della maglietta. Insomma, il tipico incedere del riscaldamento pre-partita in una gelida giornata invernale.

A vederlo muoversi in quel modo, i difensori erano quasi tentati a credere che sarebbe stato un gioco da ragazzi ammansirlo nel corso dei novanta minuti.

Però l’illusione, il più delle volte, naufragava alla prova del campo. Perché quando credevano di averlo ormai domato, lui evadeva da quella sorta di apparente pigrizia strutturale, si rendeva artefice di un guizzo fulmineo e infilava il piede nel posto giusto (e al momento giusto) per anticiparli e fare gol o per essere attinto fallosamente e guadagnare calci di rigore.

Il tutto condito da una consolidata maestria nel cascar giù in maniera naturale sotto gli occhi dell’arbitro.

Messina giocava con gli avversari due partite: una tecnica ed agonistica, ed un’altra prevalentemente psicologica.

Le sue gare erano uno spettacolo imperdibile, intrise di sorrisetti sornioni e sardonici regalati ai rivali, plateali vittimismi dopo aver subito un calcione, falsi pentimenti dopo averne rifilato uno a sua volta.

Puro godimento se militava nella tua squadra del cuore, un tormento insopportabile se ti giocava contro.

E poi, soprattutto, aveva un altro inestimabile dono di natura per un calciatore: riusciva a far gol nelle partite che avevano una grande importanza per la tifoseria, ad essere protagonista in quelle occasioni che, colte al volo, lasciano tracce di immortalità nell’immaginario collettivo.

Nella stagione 78-79Messina aveva incantato con la maglia degli ‘odiati’ cugini della Cavese, realizzando al termine del torneo ben 15 reti. Un bottino invidiabile a quei tempi e un monumento virtuale eretto per lui in Piazza Duomo.

L’implacabile Gabriele aveva trafitto un po’ tutti i portieri della categoria, però non era riuscito a far gol alla Salernitana. Il sentitissimo doppio derby contro gli aquilotti blufoncè, infatti, si chiuse con due pareggi a reti bianche.

Stagione 79-80: Messina, accompagnato dal difensore De Biase e dal livornese Botteghi, centrocampista con una fluente capigliatura bionda che ricordava i paggetti dei dipinti rinascimentali, si trasferisce a Salerno.

La sua vena prolifica confermerà i numeri registrati nella vicina Cava De’ Tirreni: 15 sigilli e tifoseria salernitana estasiata dalla sua abilità realizzatrice.

A questo punto, però, la narrazione degli eventi abbandona la realtà e approda nella leggenda centenaria del cavalluccio per occuparne uno spazio piccolo ma significativo.

E’ la quinta giornata di ritornola Salernitana è di scena allo stadio comunale (ancora non era stato intitolato alla povera Simonetta Lamberti) della cittadina metelliana.

La tensione in casa granata è palpabile, la tifoseria pretende il riscatto dopo la sconfitta casalinga (1-2) patita nel derby d’andata, con rete della vittoria ospite messa a segno da Viciani jr, figlio del tecnico aquilotto.

I calciatori salernitani, sospinti dai supporters al seguito, scendono in campo sapendo di non poter fallire l’appuntamento con i tre punti dell’onore.

La squadra avverte la responsabilità di dover regalare una gioia alla città. Il match è intenso in campo e sugli spalti, la battaglia che infuria sul prato verde è ritmata dai cori di sfottò e di sostegno delle due tifoserie.

E’ il minuto trentanove quando nell’area di rigore della Cavese, in seguito ad una delle numerose mischie, un succulento pallone giunge sul piede sinistro del bomber calabrese, il quale si veste da rapace falcone reale e fa partire un potente e rabbioso tiro in semirovesciata che non lascia scampo al portiere locale.

Sugli spalti colorati di granata esplode un entusiasmo incontenibile, mentre Messina, con un’agilità che sapeva sempre tirar fuori nei momenti salienti, comincia a saltare i cartelloni pubblicitari con la leggerezza di una gazzella inseguita dal leone, prima di abbandonarsi anima e corpo al tripudio della sua gente.

La Salernitana, concentrata e determinata, respinse poi i tentativi di rimonta dei cugini feriti dalla piega inattesa che aveva preso la gara, e portò a casa la sospirata vittoria.

Due punti che regalarono autentica felicità alla tifoseria, in una stagione che, come tante altre di quegli anni, era partita con grandi ambizioni, prima di esaurirsi in un nulla di fatto imposto da atavici problemi economici.

A quella partita era presente anche mio padre, che, preoccupato dai toni bollenti della vigilia, aveva per una volta deciso di lasciarmi a casa, inventando la scusa di un improrogabile impegno lavorativo.

Seppi la verità solo al momento del suo ritorno in tarda serata. Gli tenni il broncio per diversi giorni, e a nulla valsero i suoi tentativi di scaricare la ‘colpa’ sull’irrevocabile decisione presa della mamma.

Ma questa è un’altra storia…

Maurizio Iuliano

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