Storie

Un viaggio lungo, intenso e senza lieto fine: la Salernitana 1981-82.

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Ogni tifoso calcistico, meritevole di ascolto quando si cimenta nella narrazione della passione per la squadra del cuore, conserva una data precisa e un anno di riferimento che provvedono a rivitalizzare le antiche emozioni custodite gelosamente.

Restando nella dimensione rigorosamente granata, le vecchie generazioni irrompono con la mente nello scenario fisicamente angusto del Vestuti, all’interno del quale, però, sembrava di essere costantemente immersi in una fucina incessante di colori, suoni, profumi, fantasie ed impetuosi coinvolgimenti.

Chi ha la fortuna di avere qualche capello bianco in meno, invece, tende a lasciarsi cullare soprattutto dall‘era ‘rossiana’, che regalò calcio di qualità e il sospirato ritorno nel principale campionato nostrano, dopo cinquantuno anni di attesa intrisi di fede sofferta, tenace ed incrollabile.

Il mio ingresso consapevole nell’universo Salernitana risale alla stagione 1981-1982. Avevo compiuto da poco dodici primavere e il ‘pallone’ cominciava ad essere qualcosa in più del momento di evasione dalla routine a base di compiti scolastici e pomeriggi troppo brevi trascorsi in compagnia degli amici nel cortile di casa.

Sopravviveva l’eccitata curiosità per lo spettacolo di arte varia regalato dal fortino inespugnabile di Piazza Casalbore, ma, accanto ad esso, cominciavano a fiorire l’interesse per il gesto tecnico, la paura di veder sfumare una vittoria ormai ad un passo, la ricerca spasmodica, a fine partita, di una classifica capace di proiettarti in un futuro popolato da sogni colmi di campioni e sfide contro squadre ricche di blasone.

Quell’anno, dopo la terrificante parentesi sismica della precedente stagione che aveva condizionato negativamente l’ottimo avvio di torneo di una squadra giovane e costruita in economia a causa delle note ed endemiche difficoltà, sembrava fosse arrivato il momento giusto per realizzare l’agognato ritorno in serie B e spazzare via tre claustrofobici lustri vissuti nella snervante bolgia della C.

Vincenzo Zucchini, foto di cronachesalerno.it

Le premesse alimentarono la fervida fantasia della tifoseria. Confermato lo zoccolo duro costituito da Del Favero, Leccese, Vulpiani e Di Venere, la società si rese protagonista di un mercato all’insegna delle grandi firme. Arrivarono calciatori di spiccata personalità, tecnicamente validi e reduci da campionati vinti in serie B e significative esperienze in A.

Marconcini, Zucchini e Ferrari fu affidato il compito di fungere da chioccia per il manipolo di ragazzi messisi in mostra l’anno prima, ma essi rappresentavano anche gli elementi ingaggiati per fare la differenza, nonostante un’anagrafe non più generosa.

Ai tre esperti volponi, che calamitavano rispetto immediato con i loro austeri baffi da uomini vissuti, si aggiunsero Roberto Chiancone e Mauro Della Bianchina, protagonisti delle recenti cavalcate in B delle acerrime rivali Nocerina e Cavese.

Le redini del gruppo furono affidate ad Antonio Giammarinaro, artefice, una decina di anni prima, della storica promozione in B dell’Avellino.

Insomma, erano presenti tutti gli ingredienti per servire ai tifosi granata una pietanza finalmente invitante e in grado di restituire una realtà calcistica meno illusoria.

L’inizio del torneo fu quasi traumatico, con il prato verde ad emettere responsi che si abbatterono come un meteorite sull’umore della piazza reso frizzante dal brillante calciomercato appena archiviato. Tre sconfitte su tre in trasferta, due vittorie ed un pareggio tra le mura domestiche. Bottino troppo magro e necessità di invertire la rotta dopo la netta sconfitta patita in casa del Campania.

Era il 25 ottobre del 1981, data che resterà impressa nella personale memoria perché segnò il mio esordio in trasferta nelle vesti di tifoso. La gara si tenne allo stadio comunale di Barra, quartiere orientale di Napoli, la Salernitana fu annichilita da tre reti nello spazio di un’ora, prima dell’inutile rigore trasformato dal compianto Del Favero sul finire del match.

Mio padre decise di regalarmi il classico battesimo di fuoco, lo capii solo quando ci ritrovammo nel cuore pulsante della torcida ponticelliana.

All’epoca non esisteva ancora la rigida separazione delle tifoserie, ma una collocazione meno adrenalinica forse sarebbe stata più tranquillizzante.

Il babbo era così, si fidava troppo della sua imponente stazza, ritenuta una sorta di deterrente da opporre ai bollori altrui. Io ero un po’ meno fiducioso, e dello stesso avviso parvero mio cugino Massimo e il suo amico Mimmo quando, entrando,  videro sventolare bandiere biancorosse e percuotere rumorosi tamburi rivestiti degli stessi colori. Massimo, oggi quasi sessantenne, allora ventenne rubacuori dalle gote accese dalla passione per il gentil sesso, sbiancò e, saggiamente, decise di restare in silenzio per l’intera durata della partita.

Ritrovammo la voce in auto, sulla strada del ritorno, per emettere un collettivo e rabbioso verdetto: ”Giammarinaro deve andare via!”

Giammarinaro durante una sessione di allenamento, foto di thewam.net

Richiesta che echeggiava in tutti gli angoli del tifo cittadino; bisognava voltar pagina e scongiurare il rischio di un torneo compromesso prematuramente.

La dirigenza corse ai ripari e ingaggiò mister Romano Mattè

Da quel momento, la squadra cominciò ad assumere le sembianze idealizzate qualche mese prima dai seguaci del cavalluccio.

Il nuovo tecnico granata, in possesso anche della qualifica di insegnante di educazione fisica, affiancato dalla discreta ed umile competenza di ‘Gigino’ Gigante, allenatore in seconda e salernitano d’adozione, rasserenò lo spogliatoio e creò una macchina che iniziò a mostrare le sue potenzialità.

Solidità difensiva e concretezza cominciarono a viaggiare in compagnia delle giocate ricche di imprevedibilità esibite dagli elementi più talentuosi del gruppo.

Su un fronte, infatti, era possibile ammirare la dura ‘cazzimma’ di Leccese, Del Favero, Di Fruscia e Chirco; sull’altro versante, quello dell’estro associato ad una manciata di sregolatezza, a catturare lo sguardo felice ed estasiato dei tifosi ci pensavano le intuizioni di Chiancone, il sinistro vellutato di Di Venere, gli strappi di Vulpiani e gli spunti di Di Lucia. Il tutto coordinato dalla sapiente e carismatica regia di Zucchini.

Mister Mattè esternava il suo affetto nei confronti dei calciatori premiandoli spesso con un carezzevole ‘I miei ragazzi’, appena sussurrato nel ventre degli spogliatoi a gare concluse, che sembrava l’indizio più pregnante di un percorso intrapreso con la consapevolezza di rafforzare la fondamentale unità di intenti all’interno dello spogliatoio.

Magari non erano tutti amici, le spiccate personalità sono spesso confliggenti, ma in campo la squadra sapeva cosa fare, come aiutarsi e farsi rispettare.

Qualche mese più tardi, arrivò sugli schermi delle tv italiane il fortunato cartone animato giapponese ‘L’uomo tigre’. Il cattivo della serie, tal ‘Mister x’, aveva un’incredibile somiglianza fisica con l’allenatore trentino che, invece, si distingueva per flemma ed educazione. Ricordo questo aneddoto perché puntualmente, quando assistevo al cartoon e compariva il luciferino personaggio, la mia attenzione calava e la mente veniva immediatamente catturata dall’ansia per l’ormai prossima sfida che attendeva la Salernitana.

La serie B poteva essere conquistata, tutti ci credevano, nessuno voleva smettere di sognare.

Romano Mattè, foto di calciohellas.it

Il subentrato trainer iniziò la sua avventura in granata ottenendo due successi casalinghi consecutivi (Taranto e Paganese), poi il gruppo inanellò dodici risultati positivi, conquistando diciotto punti che resero esaltante la classifica; tanta roba nell’era dei due punti a vittoria. Marconcini ebbe la porta inviolata per oltre ottocento minuti, Chiancone e compagni entrarono prepotentemente nel quartetto di testa impegnato a contendersi i due posti valevoli la promozione nel campionato cadetto.

L’Arezzo degli ex Zandonà e Botteghi aveva l’andatura più costante e, soprattutto, poteva contare su quella macchina da gol che era Tullio Gritti, qualche anno dopo in A a far coppia nel ‘Toro’ con l’austriaco Tony Polster.

Tosta era anche la Nocerina di Di Giaimo, Barrella, Sassarini e Tortorici, con Quadri, Raffaele e Galli a spalmare sui rispettivi tabellini le realizzazioni, mai copiose in quegli anni, necessarie per restare nella zona alta della graduatoria.

Arcigno e determinato anche il Campobasso di Pasinato, che scalava la classifica grazie alla qualità tecnica di Biondi, Maragliulo e D’Adderio, avvalendosi delle spietate marcature ad uomo di Scorrano, Parpiglia e Ciarlantini, sfruttando il gioco a testa alta di Maestripieri e i gol di Canzanese.

Salerno, dunque, era pronta ad accompagnare la squadra in un viaggio lungo sedici partite, da vivere con l’adrenalina a mille e la voglia di regalarsi un sogno.

Tullio Gritti in azione, foto di nsderthona.org

Come spesso accade quando alle porte sta per materializzarsi una gara cruciale, i ragazzi di mister Mattè, pronti ad accogliere al Vestuti la Nocerina, non si sottrassero alla fatale regola del calo di tensione e inciamparono clamorosamente a Livorno.

Un incidente di percorso che interruppe la lunga imbattibilità di Marconcini, ma non intaccò la volontà del gruppo di riscattarsi in fretta e restare protagonista.

A farne le spese furono i molossi che, in una domenica carica di tensione e caratterizzata da una pioggia fitta e gelida, rimasero impotenti al cospetto della brama di vittoria manifestata da Zaccaro e compagni.

Un match sanguigno, di difficile gestione per le forze dell’ordine, che furono costrette a creare una barriera umana per arginare il tentativo dei tifosi nocerini di entrare in campo dopo aver abbattuto le inferriate del settore distinti.

La partita, già importante per gli obiettivi ambiziosi delle due squadre, scontava l’antica e fiera rivalità che separa da sempre le due tifoserie.

La doppietta di Zaccaro, una rete a testa per Mattolini e Di Lucia, decretarono il trionfo granata e la resa della Nocerina e dei suoi supporters, che furono invitati ad abbandonare con largo anticipo gli spalti per limitare al minimo i rischi di un turbolento dopopartita.

Andrea Mattolini, foto di carrierecalciatori.it

La Salernitana era riuscita a rialzarsi. Come un balsamo miracoloso, il trionfo contro gli ‘odiati’ cugini regalò nuove certezze alla squadra, che nelle successive cinque gare ottenne tre vittorie e un pareggio ma registrò anche l’inattesa e netta sconfitta di Taranto, campo da sempre avaro di soddisfazioni per l’ippocampo.

Nulla di irrimediabile e classifica ancora generosa, soprattutto in vista dei fondamentali impegni che attendevano il gruppo.

Intanto avanzava a passo spedito la sfida decisiva della stagione contro il Campobasso, da disputare ancora una volta tra le mura amiche.

In palio la seconda piazza del campionato e una cospicua fetta di B.

I ragazzi di Mattè, memori del superficiale approccio al match di Livorno, regolarono con discreta disinvoltura la Paganese in trasferta e, coccolati e caricati da un’intera città, si prepararono meticolosamente per affrontare e battere i temibili rossoblu molisani.

Ricordo nitidamente quell’attesa snervante, quasi opprimente, che avrei assaporato in tante altre vigilie vissute negli anni a venire.

Non si parlava d’altro a Salerno, l’appuntamento con la storia assorbiva le quotidiane attività domestiche, tiranneggiava le discussioni nei covi del tifo, imperava nei circoli ricreativi e nei bar, dettava i tempi negli uffici e all’interno dei cantieri, animava dibattiti televisivi che avevano il fondamentale compito di smorzare l’estenuante stress cagionato dall’impazienza.

Come se non bastasse, io e mio padre fummo costretti ad ingaggiare anche un lungo duello telefonico con due cugini sfegatati sostenitori del ‘Campuascc’Simpatiche schermaglie, certo, ma anche il pressante orgoglio che senti montare dentro, desideroso di vedersi premiato dalle gesta vincenti dei propri beniamini.

Domenica 28 marzo 1982: la primavera decise di rimandare il suo ingresso in città; Salernitana-Campobasso era tenzone da cuori impavidi. Il clima doveva essere all’altezza della situazione e regalare uno scenario cupo e grigio, dominato da una pioggia battente, pronta ad avvolgere in una sorta di immaginaria landa scozzese i 22 bravehearts che si apprestavano a lanciarsi in una vigorosa battaglia.

Tempo, a tratti, da diluvio biblico, ma i 15000 tifosi granata, stipati come sarde in una scatoletta, avevano un fuoco dentro che spegneva sul nascere la fredda umidità che imperversava sul Vestuti.

La tensione era palpabile, la Curva Sudcompatta, rumorosa e colorata, diffondeva calore anche per gli altri settori dello stadio, dove, invece, regnava il silenzio della concentrazione e l’inconfessabile paura che traccia il confine tra il sogno e l’incubo.

Foto presa dal blog di Pietro Nardiello: ChiacchiereGranataBlog

Il gol di Zaccaro, giunto dopo neppure un giro di lancette, fu liberatorio come un bacio sperato a lungo e ricevuto quando meno te lo aspetti.

Una gioia stordente e destabilizzante avvolse i cuori salernitani, il delirio prese dimora in ultrasessantenni che, dimentichi per un attimo delle loro dolorose artriti, cominciarono a volteggiare sugli spalti con la genuina grazia di un ispirato Nureyev.

Io volsi lo sguardo verso mio padre, rimanendo stupito dal suo impassibile e silenzioso contegno zemaniano. Dalla sua bocca fuoriuscivano solo interminabili scie di fumo, nessun commento, il volto proiettava una singolare distanza ieratica.

”Papà, non ti senti bene?”, gli chiesi, non nascondendo la mia crescente preoccupazione. Lui mi guardò, sorrise brevemente e, prima di ripiombare in un silenzio inespressivo, mi rispose con un glaciale ”E’ long, nun emm fatt nient ancor, s’edda fa u second”.

Purtroppo, il secondo gol non arrivò mai, la Salernitana non riuscì a chiudere la partita.

Il Campobasso, superato lo shock iniziale, supportato dai calciatori di qualità presenti in campo, diede vita ad una pressione costante che si concretizzò a meno di quindici minuti dalla fine delle ostilità con l’inzuccata vincente del centravanti Canzanese, spilungone con capelli alla nazarena, già castigatore del cavalluccio, due anni prima, quando militava nella Cavese.

La gara si concluse con un pareggio che inondò di delusione la città legata alla sorti della compagine granata.

Sugli spalti regnava un silenzio oltretombale.

Tutti, anziani, adulti e adolescenti, desideravano solo un’ancora che consentisse ai loro sogni di restare a galla in un mare divenuto improvvisamente burrascoso   

L’ammarezza, però, fu smaltita in fretta la stessa domenica sera, lasciando presto spazio alla volontà di crederci ancora: il campionato restava aperto, con altre otto partite da vivere intensamente. Nulla era perduto.

Alfredo Canzanese posa con la maglia dell’Alessandria. Foto di murogrigio.it

La settimana dopo, il popolo granata si spostò in massa  Benevento.

I sanniti, collocati in un’onorevole posizione di medio-alta classifica, non avevano più nulla da chiedere al campionato.

A quei tempi la rivalità con i giallorossi, pur non toccando i livelli di astio delle disfide contro Cavese e Nocerina, era significativa e si avvertiva.

Pertanto, ci si mise in marcia muniti di questa consapevolezza.

La speranza di compiere il colpaccio era riposta nelle maggiori motivazioni di Del Favero e compagni, ma anche  nei rapporti tutt’altro che idilliaci intercorrenti tra la tifoseria beneventana e quella del Campobasso.

Fu contesa vera, il Benevento accantonò qualsiasi ragionamento legato al campanile e vinse la gara con una rete di Stanislao Bozzi, tarchiata punta con trascorsi irrilevanti nel Torino.

La delusione si tagliava a fette, io e mio padre ci accingevamo ad abbandonare a testa china i gradoni della tribuna quando un attempato tifoso di casa, accortosi della nostra fede granata, iniziò a provocarci.

Mio padre finse di non prestare ascolto ai continui e sprezzanti richiami alle nostre origini marinare, si limitò a poggiare una mano sulla mia spalla e indicò il percorso da fare per guadagnare l’uscita.

Il tizio però non demordeva, nonostante il saggio invito a smetterla ricevuto da alcuni  pacifici tifosi locali.

Niente, la testa calda inseguiva una vittoria totale da portare a casa. Prima di fuggire a gambe levate quando il babbo, udita l’ennesima provocazione, spostò di scatto la sua mole per fingere una reazione.

Risata generale distensiva e archiviazione di un’altra amara delusione.

In auto ridemmo a lungo dell’episodio, anche perché il pari casalingo del Campobasso, contro il Campania, ci restituì una piccola fetta del buonumore smarrito all’interno del ‘Santa Colomba’.

Stanislao Bozzi con la maglia della Nocerina. Foto di carrierecalciatori.it

Il campionato restava aperto e avvincente, ma la Salernitana cominciava a mostrare delle preoccupanti crepe sul piano dell’autostima, tracce di stanchezza mentale piuttosto evidenti.

In casa, i ragazzi di Mattè fecero in pieno il loro dovere, vincendo tre partite su quattro.

Il pari contro il Casarano, nell’ultima gara casalinga, arrivò a giochi ormai fatti, quindi fu la naturale conseguenza di un crollo motivazionale.

Mentre rimase insoddisfacente il rendimento esterno, con la pietra tombale sulle residue velleità di promozione posta dal friulano Orazio Nodale, onesto mestierante di categoria che due stagioni prima, nel 79-80, aveva indossato orgogliosamente la maglia granata.

Due gol in carriera in oltre 300 partite, uno dei quali rifilato alla squadra più blasonata (e forse più amata) in cui ha militato.

Cosa dire al termine di questo lungo viaggio narrativo?

Fu un campionato agrodolce, condizionato negativamente da ben sette sconfitte in diciassette gare disputate lontano dal ‘Vestuti’.

Troppe per sperare di strappare uno dei due posti che valsero la B.

A festeggiare furono l’Arezzo ed i miei cugini di Campobasso, ai quali, io e mio padre, non rispondemmo più al telefono nei due mesi successivi.

Le grandi speranze estive, rianimate dall’avvento di mister Mattè, si spensero lentamente, strada facendo, ma provate oggi a chiedere ad un tifoso granata ultracinquantenne la formazione di quella stagione, non avrete il tempo di completare la domanda, lui vi declamerà malinconicamente quell’undici:

”Marconcini, Leccese, Mattolini, Chirco, Di Fruscia, Del Favero, Vulpiani, Zucchini, Chiancone, Di Venere, Zaccaro. All. Mattè.” 

Foto di Salernitana Story
Maurizio Iuliano

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