Storytelling

Le conchiglie di Luka e Leo

Tempo di lettura: 6 minuti

di Luigi Martino

-E te le fai scappare sempre di mano le cose belle! Che cazzo!

-Ma se questa se l’è presa il mare. Non vedi? Parli sempre senza pensare.

-Si, te ne esci sempre con il mare.

-Si, me ne esco sempre con il mare. Lui sa cosa prendere e cosa invece abbandonare qui, sulla battigia. La vedi la plastica?

-Eh.

-L’ha lasciata qui. Che se ne deve fare?

-Si, poi quello te lo dice a te quello che vuole lasciare e quello che si vuole portare. Tu ci parli con il mare eh? Ma statti zitto.

-Hai ragione, con te è meglio stare zitti! Andiamo dagli altri va. Così ti azzecchi a quel gioco stupido sull’iPhone e spegni il cervello. Stai facendo la loro fine.

La brezza disegna scie invisibili. Tocca un viso, poi i pensieri. È rapida. Un pezzo di un flacone di detersivo fa compagnia ad una lattina di coca cola che ha perso il colore e il padrone. Una conchiglia chiara c’è. Poi subito dopo sparisce per ricomparire un po’ più in là. Il mare la soffoca, poi la lascia, l’abbraccia. Una carezza dalle nuvole soffici miste ai raggi di sole e poi tutto daccapo. Il mare, la sabbia, i riflessi. Il solito uomo cicciottello con i capelli ricci neri e un sigaro cubano tra le labbra fissa il vuoto e aspetta il suo cane che finisce di scavare buche. Cerca cosa? Nessuno lo saprà mai. Scava e trova l’acqua, poi rincorre le onde. Ha paura del mare ma ci gioca.

Se ti presenti spavaldo, ti toglie tutto. Se ti sai comportare, qualcosa bene o male riesci sempre a strappargliela.

Luka e Leo sono amici da prima che i loro occhi conoscessero la luce. Le mamme si davano coraggio mentre l’ombelico triplicava il proprio diametro. Giorno dopo giorno. Calcio dopo calcio. Si scambiavano paure e progetti. Numeri di magazzini pieni zeppi di roba pre-mamàn e cellulari di ginecologhe rinomate. I loro figli, ora, collezionano ginocchia sbucciate e figurine dei calciatori. Cosa rara, si sa. E non hanno mai perso il vizio di andare sulla spiaggia in mezzo al paese a fare la gara delle conchiglie.

«Ma che cazzo è questa gara delle conchiglie? Mi sembra una cosa da gay». E’ buffo lui, forse il più buffo della compagnia. Si chiama Jonas e il papà è scappato in Jugoslavia dopo che la mamma gli ha mostrato il test di gravidanza. Lui per papà si è scelto Matias, lavora in questo bar da quarant’anni e nel tempo libero gioca alle slot, nello stesso bar, e beve mate. E Jonas sta sempre lì, tra tecnologie e caramelle bicolore alla frutta. Ogni tanto va a comprare le sigarette e quando torna Matias gli prepara acqua, zucchero e limone. «La voglio con tanto ghiaccio, però» precisa puntualmente lui.

«Altro che cosa da gay. È un gioco, scemo!» spiegano in coro Luka e Leo quando i loro coetanei vogliono sapere di cosa si tratti. «Lo insegnò il nonno a Luka in un freddo pomeriggio d’inverno – precisa Leo, sempre molto puntiglioso e maniaco dei dettagli -. E mo’ ogni volta che serve il cappuccio per uscire di casa e, però, c’è il sole, dopo quelle belle mareggiate che coprono l’isola e i pensieri, torniamo qua, tra gli scogli bassi e le conche, avanti e indietro. Alle volte se siamo fortunati le acchiappiamo nascoste davanti alle tane dei granchi. Quando il sole si tuffa in mare lì, dritto dritto a noi, chi ha più conchiglie in tasca vince. Valgono tutte lo stesso punteggio. Tranne quella marroncina, pelosetta, chiusa e intatta. Quella vale due».

«Ah. Vabbè. Dopo la scuola invece di giocare, andate a perdere tempo così. Chi vi capisce! Io devo battere il record, altrimenti a scuola mi prendono in giro» aggiunge Jonas senza nemmeno guardarli in faccia.

Il mare continua il suo lavoro. Un andirivieni che dura da milioni di anni. Senza mai stancarsi. Ogni tanto si concede qualche sfuriata. Mantenere la calma non è semplice. Lo confessa sempre a Luka che, berretto e cappuccio, va a leggere libri rubati insieme alle onde. Anche se, Leo, da 13 anni, fa credere a Luka che ha ragione. Che lui con il mare non ci parla mai. Non ci ha mai parlato.

Il mare poi, sornione e distratto, di proposito, tra le Υ disegnate dai gabbiani in un modo geometricamente spasmodico, lascia conchiglie qua e là. Indizi. Cose rare. Bellezze che vengono rubate da chi, certe cose, le ha imparate molto presto, prima di conoscere il mondo con gli occhi. «Cu l’occhie», direbbe il nonno di Luka, che non c’è più ed è nato molti anni fa lontano da qui. È andato via mentre cuciva le reti. Armato di coppola sotto il sole cocente di agosto. Ha lasciato un coltello dal manico rosso, un cassetto pieno di cianfrusaglie e la gara delle conchiglie. Una cosa stupida ma bella. Bella quasi quanto giocare con l’iPhone dopo la scuola. Non scherziamo proprio eh!

«E cosa vince chi raccoglie più conchiglie?». All’improvviso Jonas rinsavisce. Luka e Leo indossano due maglie simili, hanno entrambe la dieci sulle spalle. «Un libro» risponde Luka. «E che libro?», ribadisce Jonas. «Un libro speciale, lo puoi prendere stesso tu dal vecchio baule che abbiamo trovato una settimana fa con Luka». Jonas insiste, è diffidente, chiede dettagli, titoli ma gli altri due danno un calcio ad un pallone assai vecchio, con qualche esagono bianco che è andato a farsi fottere, e scendono di nuovo sulla spiaggia.

Mancano due ore al tramonto, poi il sole, sornione, farà intimidire il cielo e andrà a lavorare dall’altra parte della terra. I tre sembrano cani da tartufo. Camminano semi chini per avvicinare gli occhi alla sabbia. Luka porta le mani alla tasca in modo repentino, ne avrà trovate molte. Jonas segue la ‘linea delle conchiglie’, cioè quel disegno che il mare crea quando sale sulla battigia e s’incontra con la sabbia asciutta. E’ quello il punto più proficuo. Leo è il più basso e forse questo fattore gioca un po’ a suo favore: usa le mani come un rastrello e setaccia la sabbia con maestria e velocità.

L’aria dei Balcani, oggi, sembra quasi Pampero, il vento forte e freddo di origine sud polare, che spira spesso in Sud America. Il tempo è scaduto. Luka, Leo e Jonas corrono verso l’inizio della spiaggia. Salgono le scale e raggiungono la piazzetta. Ognuno rovescia il proprio bottino sul ripiano e sistema le conchiglie in modo maniacale, disponendole per valore. Conta Luka, gli altri fungono da controllori. Alla fine vince Jonas. «Questo stronzo ne ha trovate due pelosette intatte e questa che ha ancora il granchio dentro».

Luka e Leo gli indicano il baule con i libri e poi afferrano il pallone e lo lasciano nel seminterrato buio e pieno di ragnatele. Jonas starnutisce, la polvere non fa prigionieri. Con i denti tira su la manica destra della felpa, rispolvera un volume e se lo porta via. ‘Maschere per un massacro’, l’ha scritto Paolo Rumiz.

Luka ha i capelli biondi, un caschetto tagliato male. Indossa una maglia a scacchi bianca e rossa, come quella che il papà di Jonas bruciò dalla rabbia davanti alla tv pochi anni prima. Era appena terminata Dinamo Zagabria contro Stella Rossa di Belgrado e da quel giorno i rapporti in famiglia si sono fatti sempre più difficili, come se tutto dipendesse dal calcio.
Leo usa il destro solo per passeggiare, probabilmente non crescerà molto in altezza ma non dimenticherà mai la frase che sua zia non vedente gli ricordava sempre: «I messicani discendono dagli Atzechi, i peruviani dagli Incas e gli argentini dalle navi». 

Tra le pagine del libro di Jonas c’è la storia del grattacielo della via Córdoba, nel centro di Buenos Aires, dove al n. 679 si svolge un curioso capitolo della guerra dei Balcani. Al secondo piano, al termine di un lungo corridoio, un foglietto scritto a mano appeso dietro al campanello recita: «Croacia». In precedenza, secondo alcune testimonianze, campeggiava sulla porta un cartello con la dicitura: «Ambasciata croata». Poi, però, il cartello viene rimosso.

Nel cartellino della maglietta a scacchi di Luka, invece, ci sono le indicazioni per lavare il capo in lavatrice. E già, perché è troppo piccola per contenere i racconti della comunità croata in Argentina, soprattutto delle frange attive nel settore tessile. Molti di loro, una volta immigrati con cognomi diversi e nazionalità sbagliate, occuparono ruoli dirigenziali, grazie anche alla notevole disponibilità economica, presumibilmente frutto del famigerato «oro ùstascia», trafugato dai criminali croati agli ebrei prima della caduta dello Stato indipendente di Croazia e trasferito segretamente a Buenos Aires. Secondo un rapporto della Cia del 1951, un totale di 250 chili di diamanti vennero indirizzati dalla Croazia in Argentina.

Ecco, è vero, non dipende tutto dal calcio, ma questa sera al Luisal, in Qatar, quando la sfera sarà ferma al centro del campo e i calciatori sorrideranno per mascherare la tensione oppure rivolgeranno gli occhi al cielo per chiedere aiuto, due nazioni saranno pronte a contendersi la finale e tutte quelle cose che la storia ha deciso di conservare per sempre.

Non dipende tutto dal calcio ma tutti, inevitabilmente, dipendiamo direttamente o indirettamente da esso.

Redazione

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