Ve lo confesso.
Una persona, che reputo un fratello, usa una citazione che, per quanto colta, a me entra dentro come una puntina da disegno sotto un piede scalzo.
Non mi piace, non li rappresenta.
Loro sono i Leoni della Teranga.
Fino a poco tempo fa, pensavo che la Teranga fosse una varietà di pianta, una razza di animale feroce, un fiume, una regione. In dialetto Volof significa tutto e niente. Come quelle parole in dialetto, che se usate in un modo significano una cosa, ma possono tranquillamente indicarne un’altra.
La Teranga è uno stato dell’anima, un modo di essere. La Teranga, in termini spicci e riduttivi, sta per accoglienza. Nella loro cultura, un ospite che viene da fuori porta un regalo: per loro è la cosa più preziosa che c’è.
La presenza, le esperienze, la gioia di stare con gli altri. Mentre cercavo di raccogliere i pezzi per questo sproloquio, mi sono ricordato una frase di un grande scrittore:
Ecco che pensavo a quella parola: a chi spesso si fa le traversate in barca dalla Libia, e spesso quando mette piede in Europa vede che Teranga e solidarietà non coincidono, nella testa dei bianchi.
Non sempre, bisogna dire: ma spesso è volentieri è così.
In definitiva, se volete essere solidali ai Leoni c’è un piatto, il Thiebou: è pesce con riso.
Vi avverto, non cercate di baciare chi volete bene: potreste avere reazioni contrastanti.
È carico d’aglio.
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