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“A” malo

Che dai mali di mediocrità, dall’inopportuna contiguità —falso che i tifosi debbano fare solo i tifosi, verissimo che tifoseria e qualsiasi proprietà debbano sedere sui lati opposti del tavolo, con la seconda dipendente della prima— la calcistica Salerno venga liberata.

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ad amatino

Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e il 10 maggio la Salernitana torna in serie A.
E per fare in modo che la cosa non passi sotto traccia, si prende i suoi comodi tempi, ché 23 anni sono trascorsi dall’ultima volta.

A ben pensarci, un lasso di tempo non tanto diverso dai famosi “25 anni di C”, abusata ed erronea espressione dal punto di vista anagrafico —ché 24 furono— utilizzata come marchio di fabbrica di precarietà e mediocrità.

Vera la prima, quanto ci sarebbe da dire sulla seconda, sulle sensazioni che i tabellini non riescono a trasmettere.

Percorsi quasi per intero, certifico che furono anni eroici e formidabili, permeati da un epos di provincia, che ancora oggi mi marchia più dei tatuaggi che vanno tanto di moda.

Senza esclusivistiche pretese —pleonastica ed imbecille precisazione imposta dal tempo presente— Salerno e la Salernitana mi appartengono.

E non è slogan. Mi appartiene nel buono e nel malamente, ne contraddistingue carattere ed emotività.

Lo (ri)scopro oggi: Salerno è tanto brava a soffrire, quanto incapace di gioire pienamente.

È come se i colori ed i profumi unici e bellissimi che ci sono stati donati fossero un risarcimento dei nostri dolori, e siano destinati ad offuscarsi nei giorni di gioia.
Anche di maggio, sì anche di maggio.

Non sempre per avversità del fato.

Quelle non mancano, certo. Fu la vicinissima alluvione del 5 maggio 1998 a mettere la sordina alla festa allora, l’assurda pandemia ed il cordoglio per la scomparsa di un salernitanissimo calciatore della Salernitana oggi.

Ma non solo fato, dicevo.

Ben prima che la “cosa” si concretizzasse, altre e più ordinarie vicende socialmediatiche me l’hanno sbattuto in faccia: della dolorosissima e terribile lezione di un altro maggio —quello del 1999— non è rimasto nulla.

Colpa della mia generazione, quindi anche mia. Che avrebbe dovuto insegnare a chi è venuto dopo che altra e più ampia è la ribalta alla quale ci si affaccia, altra e più ampia l’eco. Che altra e più ampia —molto, molto più ampia— la maturità richiesta per portare Salerno più in alto di quanto un pallone possa fare.

Ed è, a scanso di, riferimento trasversale all’anagrafe ed alla residenza. Vale anche per chi a Salerno vive ed opera.

Ma è discorso troppo ampio per sintetizzarlo. Torniamo al campo, torniamo a Pescara. Torniamo al campo, torniamo a quanto appena conquistato da questo gruppo.

Come ci è stato “imparato”, il problema si pone quando si presenta.

Eccolo quindi, quello che chiamate “problema” è sul tavolo.

La ragione —se ve ne è residua— dice che alla soluzione si sia già pensato.

Il cuore? Ah, quello non dice, non spera, pretende.

Che dai mali di mediocrità, dall’inopportuna contiguità —falso che i tifosi debbano fare solo i tifosi, verissimo che tifoseria e qualsiasi proprietà debbano sedere sui lati opposti del tavolo, con la seconda dipendente della prima— la calcistica Salerno venga liberata.

Ben oltre la regolarità di carte federali, di norme che in questi lunghi anni pochi hanno letto.

Di liberarsi “A” malo, Salerno lo merita.

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Nato nel 1964, professione ortopedico. Curioso ma pigro. Ama svisceratamente Salerno e la Salernitana. Come sempre accade quando un amore è passionale, è sempre piuttosto critico nei confronti di entrambe.