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Casa madre – Satellite: viaggio nel tempo della partita che non si doveva mai giocare

Dalla multiproprietà al trust, dalla Serie D alla Serie A, dalle offese alle umiliazioni. Inutile girarci intorno: Lazio-Salernitana non è solo una partita di calcio

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lotitosalernitana
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“Il nostro interesse è che Salerno approdi nel calcio che conta, dapprima con la Lazio e poi autonomamente […] L’assioma ‘più spendi più vinci’ da noi non esiste. Con la Lazio ci sarà sinergia e non sudditanza. Questo pubblico, che è tra i più importanti di Italia, merita il nostro progetto: sarà un progetto quinquennale, col quale raggiungeremo i nostri obiettivi. Basandoci sul passato noi costruiremo il futuro per tornare a dire ‘Viva Salerno”. Così parlava Claudio Lotito il 26 luglio 2011 a Palazzo di Città, presentando il neonato Salerno Calcio.

Da lì in poi, lo sappiamo, tante cose sono accadute nei dieci anni successivi. La Serie D della maglia blaugrana e della volontà di riavere marchio, colore e denominazione, la C2 del dominio e della Supercoppa. Poi la C1 e il primo incidente di percorso nella sconfitta ai playoff contro il Frosinone, ma contestualmente anche la Coppa Italia Lega Pro nel segno di Ago. Il tutto fino alla cavalcata trionfale targata Menichini, e il ritorno in cadetteria dopo cinque anni di purgatorio.

Un’ascesa magica quella del cavalluccio marino targato LotitoMezzaroma, coppia con dubbiosi equilibri di potere sulla cosa granata. Dubbi divenuti ancor più marcati dal mese di gennaio del 2014, che sancì il ritorno in sella del ds Angelo Fabiani.

Un anno dopo, nel 2015, accadde qualcosa che avrebbe radicalmente modificato il ciclo capitolino alla guida della Salernitana: il cavalluccio marino si cimentò nuovamente con il campionato di Serie B, per la prima volta sotto la gestione del trio laziale.

Ecco che, improvvisamente, tutto cambiò: al magico e inarrestabile quadriennio precedente, seguì un lustro incredibilmente segnato da delusioni e amarezze sul piano sportivo e del rapporto con la piazza. Non serve tanto, in fondo, per sintetizzare i cinque campionati cadetti consecutivi disputati dalla Bersagliera. Molti utilizzano la parola galleggiamento, altri parlano di un copione prontamente ripetuto ogni anno.

Di complottismi e dietrologie non è giusto discutere, ed è per questo che basta elencare qualche dato oggettivo. Ad esempio, il fatto che la Salernitana abbia disputato una serie di tornei curiosamente identici tra loro: avvio promettente, crisi profonda d’autunno (spesso con contestuale cambio del tecnico), e girone di ritorno chiuso con il mantenimento della categoria in scioltezza, senza però mai centrare il bersaglio playoff.

Al netto delle eccezioni rappresentate dai playout del 2016 e del 2019, l’andazzo sopracitato si è verificato con Bollini e Colantuono, è riaccaduto con quest’ultimo e Gregucci (prima del ritorno di Menichini a fare da salvatore della patria) e poi ancora con l’ex ct Ventura. Sette allenatori diversi in cinque anni, includendo anche Torrente e Sannino.

A proposito di panchine, impossibile non menzionare anche Mario Somma nell’estate 2015, al timone per due mesi e mezzo prima della rottura con Fabiani, e Simone Inzaghi nel 2016, sul quale lo stesso Lotito disse che “Gli avrei fatto fare un passaggio alla Salernitana, ma l’ho catapultato alla Lazio contro l’idea di tutti” a seguito del nulla di fatto con il Loco Bielsa.

Il capitolo giocatori, dopotutto, non cambia di una virgola il modus operandi: rose rivoluzionate, decine di calciatori diversi transitati a Salerno in cinque anni, eppure nessun risultato. E, a proposito di mercato, l’aspetto centrale resta il rapporto con la Lazio. Quel cordone ombelicale che ha portato all’ombra dell’Arechi un’infinità di giocatori, tale da accontentare qualsiasi tipo di appetito.

Citandone solo una minima parte, si può partire da Di Gennaro e Djavan Anderson, prototipi perfetti dello specchietto per allodole (al pari di Rosina e Cerci, transitati a Salerno per vie traverse, e di Foggia, risalente alla C1). Passando per le “promesse” del futuro come Ronaldo, Rossi e Palombi, o i tanti oggetti misteriosi Prce, Pollace, Tounkara, Oikonomidis e Karo.

Il tutto fino alla categoria più importante, quella degli scippi: da Sprocati, Casasola, Maistro, Cicerelli e Akpa Akpro fino ai giovani come Novella, Marino e Morrone, tutti calciatori rilanciati o svezzati a Salerno e poi prontamente portati in biancoceleste.

Numeri e dinamiche che restano dati di fatto, al pari delle (poche) eccezioni rappresentate dai Tuia, Mendicino, Capua, Iannarilli o Perpetuini (parlando di categorie inferiori), dagli inespressi Strakosha e Luiz Felipe, o – in tempi più recenti – dal Minala I (lontano parente del secondo) e da Lombardi, Kiyine e André Anderson. Eccezioni che, comunque, non bastano a celare l’immenso fiume di biancocelesti parcheggiati nel comodo laboratorio di Salerno.

Guai, però, a parlare di rapporto casa madre – satellite, o di Lazio B: lo hanno fatto anche molti esponenti della stampa nazionale (ed estera) e molte tifoserie rivali, nel corso degli anni, ma evidentemente tutti si sbagliavano. Sinergia, dicono: questo è il termine da utilizzare. O, in alternativa, dire che la Salernitana ha sempre vissuto di luce propria e non riflessa.

Questione di inerzie, o di inesattezze. Tante, quelle pronunciate dal santo patron nel corso degli anni, tra un latinismo e l’altro. Come i vizi da generale e la paga da soldato, per una città capace di portare allo stadio numeri da categoria superiore nonostante l’assenza di risultati. Come le pressioni della piazza che incidono sui giocatori, o il campionato di Serie B vinto l’anno scorso perché non c’era il pubblico. Quello stesso pubblico che più volte si è rivelato capace di buttare il pallone in porta più di qualsiasi calciatore.

Senza dimenticare il noi paghiamo gli stipendi, un continuo fregiarsi di adempimenti che per una società professionistica dovrebbero rappresentare la normalità, e non motivo di vanto. O una storia fatta di Serie C al 90% e di qualche comparsa in B (falso), e il non avevate neanche i palloni, che sarà pure realtà ma di certo non è una tiritera da sbattere continuamente in faccia ad un popolo ricolmo di passione e attaccamento al di là di ogni categoria.

Ne sono passati tanti, di allenatori e di giocatori, specie quelli biancocelesti, eppure nulla è cambiato. L’unico elemento di continuità è stato il trio al vertice, la proprietà che non vende sogni ma solide realtà e il direttore che ci porta in Serie A.

Un’altra costante, però, è rimasta eccome, ed è pesata come un macigno. Si chiama multiproprietà, e trova espressione nell’articolo 16 bis delle NOIF. “Non sono ammesse partecipazioni o gestioni che determinino in capo al medesimo soggetto controlli diretti o indiretti in società appartenenti alla sfera professionistica o al campionato organizzato dal Comitato Interregionale […] un soggetto ha una posizione di controllo di una società o associazione sportiva quando allo stesso, ai suoi parenti o affini entro il quarto grado sono riconducibili, anche indirettamente, la maggioranza dei voti di organi decisionali ovvero un’influenza dominante in ragione di partecipazioni particolarmente qualificate o di particolari vincoli contrattuali”.

Parole che in tanti hanno definito un falso problema, ma che per molti altri hanno costituito un vero e proprio nuvolone, capace di ricoprire tristemente l’Arechi ogni qualvolta scendesse in campo la squadra di Salerno con la maglia granata e l’ippocampo sul petto.

Un articolo, che, soprattutto, ha spinto in tanti a porsi un’infinità di domande. A chiedersi se quel pallone rotolante sull’erba del Principe degli stadi avesse realmente un senso, ad interrogarsi sul perché una proprietà precedentemente inarrestabile avesse improvvisamente disimparato come vincere. Facendo sì che ogni sconfitta venisse segnata da retropensieri, e ogni passo avanti invece venisse seguito dal solito “Ma poi se viene promossa deve venderla”, e dal puntuale ritorno sulla terra la domenica successiva.

E, a proposito di una cessione ormai divenuta vero e proprio motivo di insonnia, è impossibile dimenticare la piacevolissima estate trascorsa dalla tifoseria granata. Un’estate in cui la città di Salerno ha dovuto attendere 58 giorni per poter entrare a far parte di quell’élite del calcio conquistata sul campo il 10 maggio a Pescara dallo straordinario gruppo di Castori.

Dopo la festa, le ricordiamo tutti le infinite giornate successive, fatte di voci, offerte, dichiarazioni, frecciate, assemblee senza inviti, paletti, deadline e documenti bocciati, fino al celeberrimo 7 luglio, data di accettazione del secondo trust presentato dalla Salernitana.

Quel documento che ha sì sancito la promozione, ma ha anche indirizzato la Bersagliera verso il peggior ritorno possibile in massima serie: senza una società, senza una rosa all’altezza, priva della minima ossatura di squadra, in netto ritardo rispetto a tutte le altre, con al timone un Generale che – bene ricordarlo – solo quattro anni fa fu candidato da Lotito alla presidenza della FIGC. Alla faccia dell’indipendenza.

E come non menzionare anche la Federazione, complice delle difficoltà infinite della Salernitana tanto quanto la vecchia (?) proprietà. O meglio, tanto quanto i disponenti, termine imposto dal linguaggio giuridico. O, se preferite, tanto quanto quella proprietà “con cui non abbiamo mai avuto problemi ad iscriverci”, e che invece quest’estate si è ridotta all’ultimo secondo per qualsiasi adempimento.

Arrivati a tal punto, questo sproloquio non può che concludersi con una domanda: può davvero una promozione in Serie A far dimenticare tutto quanto accaduto negli anni precedenti? Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto domani si gioca una partita che, per tanti, è addirittura più sentita rispetto a quella di sei giorni fa. Il motivo lo abbiamo sentito e risentito, è superfluo rimarcarlo. È quello che in tanti domani pomeriggio urleranno, quello che il buon Claudio da Roma non ha ancora capito: Salerno non è la Lazio.