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Leccese e Di Fruscia: i due implacabili “cagnacci” del Vestuti.

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E’ esistito un tempo, ormai remoto, in cui tutte le alchimie tattiche odierne, che sembrano fuoriuscite da un laboratorio della Nasa o da un convegno sulla teoria della relatività, avrebbero trovato agibilità nel calcio italiano nella stessa misura che accompagna i vani tentativi della forchetta di raccogliere il brodo.

L’era del ‘pane e salame’ abbracciato al caffè Borghetti, entrambi accuratamente riposti nello zaino dei tifosi meno esigenti diretti allo stadio, ma anche quella del sacro ragù domenicale prima di raggiungere le gradinate del ‘Vestuti’, si sposava alla perfezione con il ‘pallone carnale’ e furente delle spietate marcature ad uomo.

Non esistevano le diagonali in fase passiva, non si trovava la minima traccia del pressing coordinato di squadra; per gli allenatori, la preparazione difensiva della gara si riduceva alla consegna dei cognomi degli attaccanti rivali ai loro calciatori che indossavano abitualmente le casacche con i numeri 2 e 5.

Nella prima metà degli anni ottanta, una decade rimasta indelebilmente impressa nel cuore e nella mente dei cinquantenni di oggi, frequentatori assidui in quel tempo del catino infuocato di Piazza Casalbore, le maglie con il 2 e il 5 finivano, il più delle volte, per rivestire i busti di Vincenzo Leccese e Maurizio Di Fruscia.

Al primo, più longilineo e rapido, spettava il compito di addomesticare le velleità realizzative della punta avversaria guizzante ed estrosa, al secondo, baffo poco rassicurante e taurina muscolatura, veniva affidata la stazza del centravanti nemico.

A distanza di diversi lustri, avendo come parametro di confronto le marcature spesso blande a cui assistiamo oggi e che consentono agli attaccanti di sbalordire con doppie cifre realizzative inimmaginabili oltre trenta anni fa, possiamo tranquillamente affermare che si trattava di due implacabili marcatori ad uomo, una coppia di ‘cagnacci’ randagi di borgata che non temeva confronti nei torridi tornei di terza serie.

Erano tempi dominati dall’attesa spasmodica per l’unica partita settimanale che veniva disputata rigorosamente la domenica pomeriggio, all’interno di stadi stracolmi di passione e colore.

Il fattore campo si faceva sentire, a Salerno più che altrove, con la torcida granata che gremiva gli spalti con largo anticipo rispetto all’orario di inizio del match.

Era come assistere a due spettacoli pronti a fondersi per crearne un unico in grado di esaltare e trascinare emotivamente gli astanti.

Se le dirigenze di allora avessero emesso il doppio biglietto di ingresso, uno per godere l’incalzante folklore della Curva Sud, l’altro per seguire le sorti della squadra, avrebbero registrato incassi doppi ai botteghini e, soprattutto, risolto gli atavici problemi economici,  inseparabili compagni di viaggio di quelle romantiche annate.

Per l’aficionado dell’Ippocampo, infatti, sarebbe stato un vero e proprio martirio scindere i due momenti, che si nutrivano reciprocamente e viaggiavano in perfetta simbiosi.

Era un calcio avaro di soddisfazioni in trasferta, dove si vinceva poco, con i goleador che facevano la voce grossa soprattutto tra le mura amiche. Per questo motivo, quando a fine stagione portavano a casa un bottino di 12-14 reti, si trasformavano sistematicamente in bomber appetibili nelle sessioni di calciomercato estivo

In questo contesto calcistico di stampo rusticano, di fiero cozzar di muscoli, di viaggi della speranza spesso infruttuosi in terra nemica, Leccese e Di Fruscia vestivano i panni di attori protagonisti, costringendo al ruolo di meste controfigure gli attaccanti più insidiosi di scena sul prato del Vestuti.

Entrambi possedevano le physique du role. L’agropolese Leccese irrompeva sul prato verde con i calzettoni abbassati che lasciavano scoperti i polpacci esili e allo stesso tempo nervosi e tirati a lucido, quasi a voler avvertire il dirimpettaio di turno:  ‘oggi si danno e ricevono legnate, ma la cosa poco m’importa’.

Il velletrano Di Fruscia, divenuto negli anni salernitano d’adozione e stimato architetto, sbucava dal sottopassaggio che separava gli spogliatoi dal rettangolo di gioco con la sua maglietta a maniche corte e aderente al torace, anche quando il gelo faceva battere i denti a chi, infagottato in caldi loden inglesi, assisteva alla partita dagli spalti.

Tra i due esisteva una muta intesa, sotto forma di sguardi accigliati scambiati nel pieno della concentrazione che precedeva il fischio di inizio dell’arbitro.

In quelle rapide occhiate, altro non c’era che un messaggio disarmante nella sua semplicità: ”il piccoletto lo prendi tu, a quello più grosso ci penso io”.

Iniziava la gara, i rulli incessanti dei tamburi scandivano i tempi delle randellate: quelle un po’ guascone e dolorose inferte da Di Fruscia, mentre Leccese, più propenso all’anticipo, non faceva distinzione tra l’intervento pulito e lo stinco da ‘accarezzare’ con immediate scuse all’avversario.

Di Vincenzo Leccese ricordo la dedizione alla causa, la forza di volontà e l’umiltà che mostrava in campo e quando interagiva con la stampa. Mi è rimasta impressa una sua dichiarazione rilasciata ad un’emittente radiofonica locale dopo un importante successo esterno. L’intervistatore gli chiese di descrivere le sue emozioni dopo un gol realizzato dalla squadra in trasferta (ritorna il tema della difficoltà a violare il feudo nemico), lui diede una risposta apparentemente banale ma che evidenziava il suo modo di intendere il calcio, intriso di abnegazione, modestia, sudore e fatica: ho pensato che per perdere avremmo dovuto subire due gol”.

Maurizio Di Fruscia, invece, mi riporta alla mente la vigilia di una partita di cartello contro il Taranto, acerrimo nemico granata da sempre. Nei giorni che precedettero la gara, nei capannelli cittadini dei tifosi si parlava della pericolosità offensiva di un tal Renzo Rossi, attaccante dai buoni trascorsi realizzativi in massima serie e in cadetteria.

Giunse la domenica e mi accorsi immediatamente che il ‘mustaccio’ di Maurizio era più teso e affilato del solito. Bastarono pochi minuti, quelli sufficienti per vedere il dolorante Rossi uscire dal campo dopo un contatto con lo stopper granata. La foto, gelosamente custodita nella memoria, ritrae la punta rossoblù disperatamente avvinghiata con le braccia alle spalle del massaggiatore e del medico tarantini, mentre all’interno della bollente conca del Vestuti un collettivo e  cinicamente grato picchia Di Fruscia” sembrò essere il prologo di una partita finalmente in discesa.