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IL GIGANTE BUONO: IVAN FRANCESCHINI

Ivan Franceschini tra commozione e risate ripercorre la magica esperienza vissuta nella città di Salerno. Innumerevoli amicizie instaurate sul campo, da Ciro De Cesare a Milan Đurić. Per Ivan, il manto erboso è stato - ed è tutt'ora - un turbinio di emozioni inestimabili.

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In vista della gara di Coppa Italia che la Salernitana disputerà lunedì sera tra le mura amiche dello stadio Arechi contro la Reggina, SoloSalerno.it ha intervistato Ivan Franceschini. L’ex difensore ha vestito sia la casacca dell’Ippocampo, durante la stagione calcistica ’97-’98, contribuendo alla storica promozione in serie A con Delio Rossi, sia la maglia color amaranto, restando in terra calabra per ben cinque anni. Il baluardo classe ’76 con piacere ha ricordato i momenti più intensi e memorabili maturati a Salerno, città in cui è approdato a soli 20 anni, successivamente all’esperienza nella massima categoria francese con Olympique Marsiglia.

In veste di doppio ex ed in vista della sfida di Lunedì sera tra Salernitana e Reggina non potevamo non rammentare con te i momenti salienti dell’annata vissuta a Salerno. 23 anni fa contribuisti alla cavalcata vincente che condusse la Salernitana – dopo 50 anni – nuovamente in serie A.  Quanto è cambiato il calcio giocato da allora?

Rispetto ai miei tempi il calcio è cambiato tantissimo. È mutato il modo di approcciare alle partite, è cambiata la tecnologia… tutti quanti conoscono tutto e tutti, i segreti delle squadre si sono ridotti ai minimi termini. Prima c’era più genuinità, oggigiorno i social, in parte, hanno modificato e condizionato l’atteggiamento dei calciatori. Oltre un decennio fa si pensava solo al calcio, oggi sono subentrate altre componenti, non sempre positive per l’andamento individuale e collettivo delle società. C’erano meno distrazioni, la gioia si condivideva con la propria squadra, piuttosto che con i followers. I fattori di distrazione sono aumentati. Il progresso ha reso tutto diverso.

Può esistere un parallelismo tra la Salernitana di Delio Rossi e quella di mister Castori?

Rossi è stato ed è tutt’ora un grande allenatore. Ha sempre applicato un calcio molto offensivo, proponeva tantissimo gioco, invece Castori è noto per il suo pragmatismo. Il mister marchigiano struttura le squadre molto bene, soprattutto in difesa, tanto da rendere la retroguardia quasi impenetrabile. Il gioco espresso in campo dai due allenatori è totalmente differente, sono accomunati, però, dalla capacità di fare gruppo, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. Castori è un mister navigato, con la Salernitana ha compiuto un’impresa; di essere bravo, lo ha dimostrato anche in altre piazze, arriva al risultato con le sue forze. Le sue squadre rispecchiano il suo modo di essere, riesce a plasmarle.

I ricordi più belli che riaffiorano quando pensi alla città di Salerno?

Abitavo dove c’è il ristorante “Peppe ‘o scuorzo” con la squadra andavamo sempre a mangiare lì, l’ossatura della società era forte e mirava a rendere il clima quanto più disteso e sereno possibile, il campo lo dimostrava. Eravamo un bellissimo gruppo, molto coeso, circondato da affetto. Mi sono trovato benissimo. Ero un ragazzo di vent’anni. Inoltre, quando vinci è tutto più semplice, anche i problemi da affrontare. Salerno per me è stata la seconda esperienza fuori casa dopo la Francia. Stando al mio percorso e volendo creare un parallelismo con il presente, dopo la stagione giocata a Marsiglia, tornare in Italia per disputare un campionato di serie B, ad oggi, sarebbe stato, probabilmente, impensabile. Attualmente, un giocatore con l’esperienza che io avevo maturato all’estero, avrebbe avuto occasioni “più importati” sin da subito, in club blasonati, con la possibilità di guadagnare nell’immediato tantissimi soldi. Oltretutto, fui uno dei primi calciatori italiani ad approdare al di là dello Stivale. Salerno è stata una grande scommessa rivelatasi, alla fine, un successo epico, per tutti.

Raccontaci un aneddoto sul tuo conto, quello legato a Ciro De Cesare. È  vero che al termine degli allenamenti era solito nascondere i tuoi abiti, ritardando così, il tuo rientro a casa?

Si, all’epoca ero un ragazzo timido, quindi, pane per i denti di alcuni miei compagni di squadra. Ci divertivamo, i primi tempi mi “bullizzavano”. Poi, col tempo con Ciro è nata un’intesa maggiore, abbiamo giocato insieme anche a Verona, vincendo il campionato. Aveva la testa un po’ calda, era una scheggia impazzita.

Inoltre, la tua stagione a Salerno ti vide impegnato anche come militare, data la leva obbligatoria…

Esattamente. Io e Fusco avevamo quest’ulteriore responsabilità che, non sempre ci dava vita facile. Era difficile, non ci si poteva allenare adeguatamente. Andavamo via la domenica notte dopo la partita per raggiungere Roma. Avevamo dei permessi speciali che ci consentivano di raggiungere nuovamente la squadra il giovedì dopo pranzo. Spesso arrivavamo in ritardo per la seduta pomeridiana, rischiando di saltarla, quindi, ci rimanevano solo il venerdì ed il sabato per prepararci alla gara del week end. In caserma, ovviamente, non ci si riusciva ad allenare come quando si era col mister, era tutto troppo complicato. Inoltre, io arrivai anche un po’ più tardi in squadra rispetto ai miei compagni, dopo il ritiro, alla terza partita di campionato. Faticai per meritarmi l’attenzione del mister, ma quando venivo chiamato in causa davo sempre il massimo. Il nostro era un gruppo che viaggiava a mille, anche per questo, non subito trovai spazio. Basta ricordare che fino alla diciassettesima giornata di campionato non perdemmo nemmeno una gara.

Quale effetto ti sortiva il “muro” dell’Arechi?

Il peso delle responsabilità era grande. Il pubblico era tanto caldo quanto pretenzioso, non potevamo e non volevamo deluderlo. A Salerno mi sentivo amato da tutti, camminare in strada era una festa. Gli appassionati non erano solo pieni di entusiasmo, ma anche molto educati. Non dimentico la tragedia di Sarno. La compostezza del pubblico, nonostante la vittoria del campionato, fu surreale. In città non volò una mosca, non suonò un clacson. Mi è rimasta impressa questa disgrazia, inevitabilmente.

Ti dispiacque non essere stato riconfermato in rosa dopo la promozione?

Ci rimasi male perché con la Salernitana mi trovai benissimo. Eravamo una squadra giovane, di prospettiva. Il mister mi avrebbe voluto ancora in rosa ma, non si riuscì a concretizzare questa volontà reciproca.

L’esperienza in Francia come la vivesti?

Fu molto formativa. Oltretutto, non ebbi problemi per ambientarmi, studiai francese alle superiori. In squadra ebbi compagni di spessore come Köpke , Domoraud… gente che aveva vinto Champions League, coppe nazionali, avevo giocato con calciatori importanti. Il pubblico di Marsiglia, come quello di Salerno, presentava una piazza molto calda.

In veste d’allenatore come valuti l’imminente stagione della Salernitana in massima serie?

È una stagione particolare. Ci sono tante piccole squadre in A: quelle che sono salite dalla cadetterie ed in più quelle che lo scorso anno si son salvate nelle battute finali del campionato, facendo non poca fatica, saranno tutte dirette avversarie dei granata. Più concorrenti alla portata della Salernitana ci saranno e meglio sarà. La lotta per la salvezza non sarà semplice ma, nemmeno impossibile.

Credi che l’assenza della figura di un presidente possa incidere negativamente sull’umore e l’andamento squadra?

La figura del presidente incide su tutto e su tutti. C’è da augurarsi che chi attualmente muove i fili, sappia mantenere il giusto equilibrio, un sano ordine e la corretta armonia all’interno del gruppo, dando supporto e non facendo mancare nulla, dallo staff tecnico ai calciatori. Le vittorie di una squadra partono da lontano, non dipendono solo dai calciatori e necessario che tutti i componenti remino in un’unica direzione. Nei momenti di difficoltà è essenziale fare scudo e fare quadrato, tutti assieme. Poi, per molti giocatori sarà la prima volta in serie A, quindi, in alcuni prenderà il sopravvento la voglia di dimostrare quanto si vale, cercando di fare bene a prescindere da questa situazione legata al Trust. In più, un altro fattore che conterà per i calciatori, per avere serenità, risiederà anche nella certezza di avere gli stipendi pagati a fine mese.

Conosci bene Milan Đurić?

Si, abbastanza. Con Milan giocammo assieme una decina d’anni fa. Io ero a fine carriera, avevo già 33 anni, lui 18-19. Era un bel bestione. Era giovane e doveva affinarsi dal punto di vista tecnico, aveva già mostrato importanti qualità fisiche. Essendo così grosso, tanto alto, in caso di difficoltà si è sempre mostrato un calciatore utile per giocare la palla lunga. Di testa è molto bravo, fa salire la squadra. In lui risiedono qualità importanti volte a fare bene per una squadra “piccola” che deve salvarsi in serie A. Inoltre, Milan è anche arrivato in Nazionale, ha fatto la sua gavetta, ha fatto tanta serie B, quindi, si meriterebbe questa possibilità in massima serie. È un giocatore non sempre bellissimo da vedere, a tratti è un po’ macchinoso, però, sa anche dare delle soluzioni sorprendenti in area di rigore. Sarà interessante da scoprire in questa nuova categoria, affiancato da un buon centravanti d’esperienza.

In Calabria la tua esperienza calcistica è durata un lustro, inoltre, a Reggio hai ottenuto la vittoria più bella: la tua famiglia.

Anche a Reggio ho avuto la fortuna di vincere il campionato di serie B, è successo il primo anno, mentre i successivi quattro li ho vissuti giocando in massima serie. In Calabria ho conosciuto mia moglie, ho due bellissimi figli e ad oggi vivo ancora nell’estremo Sud. Volevo aggiungere che, se pur non abbia giocato in squadre italiane blasonate, l’entusiasmo che ho assaporato a Salerno e a Reggio non l’ho mai percepito o sentito raccontare da colleghi che facevano parte di altre società, in altre città. Auguro a tutti ciò che ho vissuto io, dove l’ho vissuto io. Ho giocato in due piazze incredibili, luoghi in cui ho visto cose che sono rimaste impresse nella mia mente, nei miei occhi, nel mio cuore, per sempre. Realtà del genere ti fanno amare ancora di più il tuo lavoro, ti fanno sentire importante, con l’umore alle stelle. La mattina mi alzavo già di buon umore grazie al calore del meridione.

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Sono Raffaella Palumbo, classe 1990, salernitana dalla nascita. Per varie vicissitudine, sono espatriata a Genova da quando avevo 21 anni, nel capoluogo ligure esercito la professione di insegnate. Amo la vita in tutte le sue sfaccettature, non trascuro i dettagli. L'ottimismo, la curiosità, la follia, l'intraprendenza ed il sorriso sono caratteristiche di cui non posso fare a meno. Tra le gioie più grandi della mia vita rientra mia figlia: Martina. La pallavolo, la scrittura, i viaggi e la Salernitana sono le mie principali passioni. La benzina delle mie giornate risiede in tre espressioni che non cesso mai di ripetere a me stessa e agli altri: " VOLERE è POTERE, CARPE DIEM e PER ASPERA AD ASTRA"!!!