Home Editoriale La milonga urbana: Olanda vs. Argentina

La milonga urbana: Olanda vs. Argentina

La Storia poteva cambiare, sì, qualcuno in meno sarebbe sparito.

1020
0
Tempo di lettura: 5 minuti

In fondo, è questione d’etichetta. Ma, caminitosteeg o vicolo non sono poi molto differenti. Specialmente di notte, specialmente se una pioggia democratica lucida le scarpe del ricco e del povero, e in qualche modo lava via i rifiuti abitualmente depositati a vario titolo. Auspicabilmente non cieco, passeggiare in un vicolo di notte aiuta a pensare, a fare bilanci. Come si fa in questo lungo addio ad un anno che finisce, e di solito si inizia dal giorno dedicato all’Immacolata Concezione. A pensarci bene, scopro che la collocazione inconsueta di questo Mondiale non è poi così incongrua. Come l’anno uscente, anche lui consuma un lungo addio dai quarti di finale, discende verso la fine con botti e fuochi d’artificio, esita in festa, rimpianti e buoni propositi.

E di nascosto a danzare

Musica per pensieri, ci vuole. Che sia milonga. Che, ammesso fosse una canzone, è pure danza, e platense, non argentina soltanto. Si gioca in tre tempi –presagio di supplementari?– e il vocabolo indica parola, confusione, litigio.

La sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra,
Il suo essere di frontiera, una verde frontiera
Una verde frontiera tra il suonare e l’amare

Fu milonga urbana quell’Argentina-Olanda del 1978, designata con l’articolo determinativo ad offuscare tutte le altre sfide, forse pure quella di oggi. E come spesso avviene per le partite che restano nella memoria fu gara di rara bruttezza, ma piena di simboli. All’Estadio Monumental, in un giorno di giugno forse più invernale di questo nove dicembre di Lusail, scese in campo una squadra mai completamente vittoriosa, nella fase discendente e priva del suo campione principe rimasto a casa perché un tentato rapimento gli aveva cambiato la vita. Di fronte, un’albiceleste che, semplicemente, non doveva essere lì ma si accomodò sulla poltrona finale spinta dal regime di Videla

dalla quiescenza arbitrale, e da una combine col Perù.

Ma tutto quel che si vide, quel che si é capito e saputo dopo, hanno reso iconica questa finale. Pure il mancato appuntamento con la Storia, ché se avesse vinto l’Olanda non avrebbe alzato la Coppa per protestare contro il regime di Videla. La Storia poteva cambiare, sì, qualcuno in meno sarebbe sparito.

Basette e canottiere

Vorrei far finta di aver capito tutto al tempo, ma, pur vorace lettore, non potevo capire quel che non si diceva. Semplicemente rimasi nel mio cortile, annotando un particolare che annullava gli 11.438 km che separavano Baires da Amsterdam. Parlo delle basette enormi che caratterizzavano il look di tanti protagonisti di quella brutta finale. Quelle di Mario Kempes, un viso bambino in un corpo da Rambo

quelle di Willy van de Kerkhof, un viso da delinquente in un corpo da delinquente 

ed una certa somiglianza con Malcolm McDowell, l’Alex DeLarge di “Arancia meccanica” 

che poi era pure il soprannome di quella nazionale olandese.

Le basette mi colpivano, mi ricordavano il mio professore d’italiano alle medie.

Correo nel fomentare l’amore per la parola scritta, gli volevo bene, nonostante –in un momento di debolezza– ci avesse raccontato di un passato repubblichino e di un avventuroso ritorno in bici dal Nord alla sua Messina. Gli volevo bene, nonostante l’unica nota disciplinare scritta sul mio diario e che pretese firmata dai genitori. Riguardava il fatto che non indossassi la maglietta della salute, allora più modestamente identificata come canottiera.

Più ribelle dei portatori di basette, non la indosso ancora oggi.

Una sombra ya pronto serás

Scriveva Giovanni Arpino nelle sue magnifiche Cronache Argentine, una delle Bibbie per chi vuol scrivere di Calcio, che in Argentina Carlos Gardel é pietra di paragone. E anche se questa nota é infarcita di Paolo Conte, non posso non rubare, come fece Osvaldo, questo verso di “Caminito” la sua canzone più celebre.

Mi aiuta ad introdurre ombre che si affacciano in questo vicolo e che mi soccorrono nel guidare a ritmo più lento la milonga, a rivelare più di quanto apparisse. Sono ombre di soldati del calcio, forse non bene ricordate e tramandate.

Due di queste, sono ombre davvero, ché il vento se li é portati via.

Dick Nanninga, guerriero inaspettato di quella finale, intruso del Roda tra i lancieri dell’Ajax –rifiutò il trasferimento per non fare panchina e perché aveva aperto un negozio di fiori a Kerkrade– era il classico perticone buono per i momenti disperati. Buono lo fu anche in quella brutta finale. 

Il vento del diabete (cinque mesi di coma dai quali si riprese, due amputazioni) se l’è portato via nel 2015.

Leopoldo Jacinto Luque –attenti a Google, ché il medico di Maradona non c’entra nulla– ebbe il demerito di aver segnato “solo” quattro reti in quel Mundial. Il suddetto Mario Kempes nella fase eliminatoria non aveva visto la porta. Poi si tagliò i baffi –lui– e mise a segno tre doppiette, finale compresa. A lui gloria imperitura, a Luque la permanenza dei baffi. Che me lo facevano amare per la somiglianza con Miguel Vitulano, idolo della mia periferica adolescenza calcistica.

Luque se l’è portato via il vento del Covid-19, dieci mesi fa.

E di nascosto ad amare

Auspicabilmente non cieco, caminitosteeg o vicolo si aprono sul presente, o futuro prossimo venturo. 

In fondo al quale ci sei tu.

Che meriteresti un premio alla carriera, lo capisco persino io.

Accada o meno, non lo vedrò questo momento. Mi fucileranno, infatti, alla pubblicazione di questa nota.

In barba –e dopo baffi e basette mancava solo quella– alle roboanti giaculatorie di Lele Adani, di te non sono innamorato. Non ho saputo trovare, in questi anni, curve sinuose, né lampi unici e geniali, né tango né milonga. Né un discorso, una frase, che mi abbiano acceso i sensi. Colpa mia, sicuro, ché i numeri son numeri.

Magari accadrà oggi stesso, magari –come ho fatto io per il 1978– nel 2046 qualcuno racconterà l’epica di questo quarto di finale.

Non sarà più affar mio, e forse di vicoli e milonghe nessuno saprà più. Nel metaverso magari.

Ma, passeggiando per questo caminito, ad amare mi sento sempre pronto.

Vieni a prendermi.

Finché Atahualpa o qualche altro dio
Non ti dica: “descansate niño”, che continuo io
Articolo precedenteDiario Mundial: Caravaggio
Articolo successivoCattive notizie dall’infermeria, si ferma Sepe
Nato nel 1964, professione ortopedico. Curioso ma pigro. Ama svisceratamente Salerno e la Salernitana. Come sempre accade quando un amore è passionale, è sempre piuttosto critico nei confronti di entrambe.