Uno sente la canzone più youtubbata dell’anno e percepisce quanto leggete sopra. Capisce dov’è che Francesco Totti voleva andare a parare
Si perché, diciamocela tutta, lui è diventato un’icona pop. Io sono convinto che, se l’avesse visto la buonanima di Andy Warhol, ci avrebbe fatto una serie di ritratti.
O meglio, in giro per Roma i ritratti già ci sono. Ma non li ha dipinti Warhol.
Esempi?
Si, perché – “Ah Francè” – è la cosa più mediatica e di massa che, attualmente, si può trovare in Italia.
Pare possibile che il mondo del cinema non se ne accorgesse?
“Speravo de morì prima” non è solo la classica serie da divano e popcorn, mentre la donna che ami prima ti guarda perplessa, poi si appassiona.
È una serie che mette a nudo le insicurezze e i limiti di noi maschi. Dalle immagini si evince il dramma esistenziale dell’uomo che ha paura di sentirsi solo. Di uscire dal muro.
Noi maschi siamo fatti così.
Abbiamo paura del dopo, non sappiamo cosa fare. Ci piace vivere così, legandoci per sempre a qualcosa – o qualcuno – e non vogliamo abbandonarlo. Ci sentiamo bertolosi, abbiamo paura.
L’insicurezza di noi maschi, appunto. Emblematica quando dobbiamo prendere una decisione, anche la più banale. Non riusciamo a decidere quale maglione comprare, figuriamoci se dobbiamo decidere di finire una carriera calcistica durata 25 anni.
Figuriamoci poi se ti chiami Francesco Totti da Porta Metronia, Roma.
Stavolta, però, questo dramma non è stato trattato dallo studio di psicologi e sociologi.
È un racconto pop. Più vicino a Boris che ad un film di Bergman. Si può anche ridere di un dramma umano. Ci si può scherzare, si può raccontare anche di una famiglia come quella del pupone, capitanata da un padre silenzioso (Tu sei come quello: Siete ‘na famiglia de muti). Per un padre silenzioso, c’è una madre straripante – una che arriva anche a camuffare la voce per insultare Spalletti e la dirigenza, fra le frequenze delle radio romane.
Oppure sei mamma fra le mamme – core de mamma – che accoglie in casa il migliore amico del figlio cazziandolo per il disordine. E fa niente che il migliore amico di Totti, in quel frangente, sia un tale Antonio Cassano.
Ecco, in questo racconto ci sono tutti i vizi e le virtù di noi maschi Italiani.
La sindrome del maschio Alfa. Che si prende a cornate con l’altro maschio per garantirsi la supremazia nel branco (ah, Tognazzi nel ruolo der Pelato è straordinario). Oppure la vendetta meschina e malignetta che uno dei due organizza e architetta tutti week-end. La sete di vendetta e di ribalta, del resto, sono proprie dei maschi insicuri e mammoni.
La scialuppa di salvataggio, per ogni maschio, è la giusta donna. Solo loro, in effetti, sanno mantenere lucidità e redini in un rapporto. Sono capaci – questione di indole – di dire in faccia tutto quello che pensano: la verità, nient’altro che la verità.
Ilary, nella serie, afferma che le cose vanno dette così come stanno. Fa’ niente che usa i giornali. Fa’ niente che poi si incazza e si schiera al fianco del marito, aizzandolo a fare la guerra.
Perché se in casa sei un paperotto spaurito, nello spogliatoio sei il numero 10 e capitano della ASR. Che, più o meno, equivale al titolo di capo dei gladiatori.
Adesso vediamo Roma da che parte sta.
Finirà senza vincitori né vinti. Come tutti i litigi fra maschi, d’altronde.
Se uno ci pensa, hanno passato ore a insultarsi. Il risultato finale è Totti che chiude la carriera – il suo tributo fu meraviglioso spettacolo – mentre Er pelato saluta tutti, con un sorriso che sembra più una paresi (pillole di circostanza), e se ne va.
Chi si è piccato, dall’alto della laurea in cinematografia presa su Torrent, sbaglia.
Perché gli attori non dovevano somigliarsi fisicamente, dovevano assomigliarsi in tutto e per tutto coi loro tic e le loro posture.
Ah, ho trovato geniale alcuni cammei: come quello di Ricky Memphis, di Biascica (si, non mi ricordo mai come si chiama. Per me resta Biascica) o di un clamoroso Guzzanti – nel ruolo del sacerdote che deve sposare un ragazzo il giorno della partita d’addio.
Lo so, già state pensando alle jastemme che avete tirato quando la vostra compagna vi invitava a pranzo e la Salernitana giocava a Casarano la Domenica delle Palme, lei vi diceva: “Sai amore in famiglia ci tengono tanto”. E, mentre voi facevate si con la testa, in capa a voi pensavate: “Ma quannu mai se fa ‘o pranzo la Domenica delle Palme!”
Insomma, “Speravo de morì prima” è simile alla costruzione di alcune canzoni, quelle che si sentono e si cantano quando torni dal mare. Col tramonto che si srotola alle spalle, i primi fanali che fanno capolino sulla carreggiata, lievemente alticci de birra e de sole, a tutta velocità, fra le lucciole che iniziano a popolare la statale.
Un po’ come la canzone citata all’inizio di questo sproloquio, in attesa der finale cor botto.
Perché, diciamocelo chiaramente, ognuno di noi spera di uscire indenne e arricchito dal bivio, mutato nel viso e nell’anima.