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Repubblica Ceca – Danimarca: l’orologio di Josef

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Schick
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Ti ritrovi a Praga, poco prima che accada qualcosa.

Sei stato in giro per fare foto e raccontare verità. Totali, non le mezze verità che qualcuno ti costringeva a mostrare. Eri appena tornato, infatti, da un reportage scomodo per l’epoca. In realtà, sarebbe scomodo farlo anche adesso.

Per anni, appunto, ti sei ritrovato a scattare foto, a interagire con le comunità rom di Slovacchia e Romania.

Sì, perché dentro sentivi un fuoco: andare in giro e far vedere le storie minime. Poco più che un ragazzo che, laureatosi, aveva lasciato il posto sicuro.

Per prendere in mano una macchina fotografica e raccontare.

Ti ritrovasti, qualche giorno prima che la storia del mondo cambiasse in maniera drammatica e irreparabile, laddove molti studenti affollavano la piazza. La richiesta comune a tutti i ragazzi del mondo, in quell’epoca:

La Libertà.

Ti ritrovasti lì per caso, forse perché lo volevi. Insomma, ti ritrovasti a scattare il fotogramma più semplice del mondo. Alzasti il tuo braccio e mostrasti l’orologio.

Il tuo orologio.

Fa niente che quei puntini sullo sfondo, sfocati e tremolanti, rappresentino la morte. Sono i primi carrarmati sovietici che, entrando in città, intendevano soffocare quella richiesta.

Sì, quella foto avvertiva i tuoi concittadini rinchiusi in casa: il tempo stava per scadere.

Anzi, al momento dello scatto, il tempo era già finito. Quei giorni furono raccontati così, semplicemente, con le tue foto. Con la poesia che accompagnava all’ultimo ballo un’era così caotica.

Sappiamo tutti come è finita. Ancora adesso portiamo addosso le scorie.

Quel reportage consegnato alla Storia, ha avuto la forza di uscire dai confini. Finì sul tavolo di due vecchi lupi della fotografia (Robert Capa e Henry Cartier Bresson). Possedevano l’agenzia di stampa più importante del mondo, alcune copie finirono fra le mani dei giornali.

E alla fine tu, anonimo e sconosciuto fotografo, diventasti icona. I due vecchi lupi pressarono e convinsero il governo inglese, per concederti quell’abbaglio di libertà: un nascondiglio. Lasciasti la sua terra per andare in giro per l’Europa, per fare quello che amavi di più: scattare la verità.

Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco: non osservi più nulla.
Io viaggio per non diventare cieco.

Rimanesti, per lunghi anni, apolide. Fino a che la Francia ti concesse la cittadinanza. Sei ancora tra noi bello e sveglio come un ex hippy.

Che caro che sei, Josef Koudelka. Hai ancora lo sguardo curioso e spaventato di quel ragazzo che ha inquadrato l’orologio. Lo sguardo di colui che ha fatto sì che il mondo sapesse.

Sappiamo, grazie a te, che il popolo cecoslovacco è stato un fiero e combattente.

Come in piazza così sui campi di tennis

(A Salerno, davanti alla tv, un ragazzino di 13 anni che vi odiò tantissimo…)

O col fiato corto su un dischetto del rigore, per battere il rigore più strano che si sia mai visto su un campo di calcio.

(Il giorno dopo almeno 50 ragazzini a Salerno – forse anche di più – provavano il rigore alla Panenka).

Sì, dobbiamo proprio dirti Grazie. Caro Josef.

Hai fatto in modo da dimostrare che la Cecoslovacchia esisteva. Grazie ad un orologio e alla tua voglia di mostrare la verità.