Home Editoriale Serbia – Svizzera: l’aquila della discordia

Serbia – Svizzera: l’aquila della discordia

Uguali i simboli, contrapposto il significato: alcune aquile - benché sorelle - possono essere nemiche per natura.

1077
0
Tempo di lettura: 4 minuti

L’araldica è una scienza esatta, espone le ambizioni di una casata.
Il simbolo adottato, a sua volta, può esprimere svariate gradazioni semantiche. Fra tutti i simboli, in assoluto, l’aquila rappresenta il più inflazionato.

Rapace che raffigura nobiltà, libertà e potere, la cui apertura alare simboleggia allo stesso tempo più tendenze, talvolta contrapposte fra loro: resistenza e militarismo, forza bruta e nazionalismo. Accade fin dai tempi dell’Impero Romano, poi Sacro. Adottata dai Nemanjić, dagli Asburgo e da Napoleone, dai fascisti e dai nazisti, dai serbi e dagli albanesi.

Fino all’Esercito di Liberazione del Kosovo, ecco dove volevamo arrivare: l’UÇK.

E gli svizzeri, cosa c’entrano? Direte voi.
Riavvolgiamo il nastro.

Doha, 2 dicembre 2022.

Maledetti stereotipi, banalizzano tutto: tendono a semplificare quel che semplice non è, per niente.
Quanti ne abbiamo masticati, fra nozioni sbadigliate in aula e spigolature da Settimana Enigmistica. Quanti ne abbiamo metabolizzati, giusto per conferire rumore ai silenzi della conversazione qualunque.

Nel Mondiale inconsueto, di sicuro il più discusso – frutto di diritti negati, inni taciuti, pronostici sovvertiti, Budweiser senza sentimento, arcobaleni vietati, proteste sedate sul nascere, osmosi di intelligence e automobili cappottate – si scontrano Serbia e Svizzera.

Eppure, soffermandosi su queste due nazioni in particolare, quanti chilometri percorre l’immaginario collettivo?
Pochi, pochissimi.

Da un lato sono i pascoli verdeggianti, mucche viola che sfornano cioccolato industriale, ingranaggi e rintocchi, bottegucce minute che danno su un corso ordinato, campanili e guardie variopinte, neutralità, mungiture e precisione; dall’altro sono le genitalità calde, distese di “vić” a ritmare i cognomi, raffiche di mortaio, incomunicabilità interetniche, Ak47 in spalla e vento maligno che spazza cumuli d’ossa nelle fosse.

Storie distanti, all’apparenza: troppo diverse per trovare punti in comune. Altro luogo comune vorrebbe che gli opposti si attraggano: confutato anch’esso.

Altro che attrazione: sul versante calcistico il punto di ebollizione ha una data precisa. Due nomi altrettanto precisi, quasi una filastrocca sospirata al vespro, due personaggi da cartone animato post-sovietico: Xhaka e Shaqiri, Shaqiri e Xhaka.

Kaliningrad, 22 giugno 2018.

Era un’altra Russia quella che ospitava i Mondiali del duemiladiciotto, forse neanche tanto.  

Conosciamo a menadito le dinamiche, le manie di protagonismo e i totalitarismi annacquati dei giorni nostri. Qui non si intende offrire appigli ai vari Putin e Zelensky: l’uno stronzo quanto l’altro; l’uno verrà giudicato dalla storia, pure l’altro.

Sotto ogni sputo di cenere cova il fuoco del conflitto. Calcio e geopolitica marciano insieme, l’uno non prescinde dall’altra. Non che si voglia dire che il conflitto è il sale della storia, ma la storiografia poggia indiscutibilmente le sue evidenze sul conflitto.

Se la Federazione Jugoslava – poi mutilata dalla storia contemporanea – si è frammentata ritornando Serbia, perdendo finanche il Montenegro formato Germania 2006; la Svizzera ricopre il ruolo di porto sicuro, talvolta tutt’altro che disinteressato, mittel(extra)europeo che accoglie i transfughi d’ogni guerra (sia essa d’armi, di fame o di clima).

Nel caso, tornando ad appena sette giorni fa, chiedete a Breel Embolo: il primo calciatore a non festeggiare un gol in Nazionale, fattispecie controversa.

Tornando all’estate di Kaliningrad, occorre rispolverare un detto: “Il diavolo fa le pentole, non i coperchi”.
Odioso e fuori luogo, nello specifico.

Quel giorno il diavolo fece pentole, manici e coperchi, redasse inviti, liste nozze ed approntò matrimoni principeschi. Due calciatori su tutti, quasi a simboleggiare l’odio residuo di quegli sporchi ’90, intesero celebrare le origini kosovare con un’esultanza particolare.

L’effetto farfalla traslato all’effetto aquila: lo sanno tutti, il battito d’ali d’un aquila divarica cicatrici mai rimarginate dal corso degli eventi.

Ecco la sintesi, nel gesto che da bambini proiettavamo sul muro al lume di candela. Gesto che ha il retrogusto d’infanzie rubate e di biancheria ammucchiata alla rinfusa per sottrarsi alla guerra.

Il ragazzino che si annoia gioca di fantasia, segue con lo sguardo una crepa del muro. A volte, per affinare i sensi, la sfiora col dito e ne traccia il percorso: ruvido e familiare. Anche le crepe hanno una loro dialettica: a volte sono espressione di sofferenze strutturali della casa, in altri casi sono dettate da agenti esterni troppo invadenti per sentirsi al sicuro e restare.


Eccola, l’aquila dell’UÇK scagliata in faccia all’aquila serba: la contraerea di una generazione a cui hanno sottratto la nazionalità.
Torniamo al punto di partenza, due aquile – benché sorelle – possono essere nemiche per natura e avere significati differenti: sopruso e resistenza, occupazione e scherno.

E in un calcio sempre più globalizzato, che annulla distanze tecniche e territoriali in nome di un quieto vivere che mortifica le radici: lunga vita alle macerie.

Articolo precedenteMercato, un “tulipano” per la difesa
Articolo successivoLavori all’Arechi: il Comune annuncia il via da lunedì
Nato nel '90. Due passioni governano i moti del cuore e, molto spesso, confluiscono l'una nell'altra: Salernitana e poesia.