L’araldica è una scienza esatta, espone le ambizioni di una casata.
Il simbolo adottato, a sua volta, può esprimere svariate gradazioni semantiche. Fra tutti i simboli, in assoluto, l’aquila rappresenta il più inflazionato.
Rapace che raffigura nobiltà, libertà e potere, la cui apertura alare simboleggia allo stesso tempo più tendenze, talvolta contrapposte fra loro: resistenza e militarismo, forza bruta e nazionalismo. Accade fin dai tempi dell’Impero Romano, poi Sacro. Adottata dai Nemanjić, dagli Asburgo e da Napoleone, dai fascisti e dai nazisti, dai serbi e dagli albanesi.
Fino all’Esercito di Liberazione del Kosovo, ecco dove volevamo arrivare: l’UÇK.
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E gli svizzeri, cosa c’entrano? Direte voi.
Riavvolgiamo il nastro.
Doha, 2 dicembre 2022.
Maledetti stereotipi, banalizzano tutto: tendono a semplificare quel che semplice non è, per niente.
Quanti ne abbiamo masticati, fra nozioni sbadigliate in aula e spigolature da Settimana Enigmistica. Quanti ne abbiamo metabolizzati, giusto per conferire rumore ai silenzi della conversazione qualunque.
Nel Mondiale inconsueto, di sicuro il più discusso – frutto di diritti negati, inni taciuti, pronostici sovvertiti, Budweiser senza sentimento, arcobaleni vietati, proteste sedate sul nascere, osmosi di intelligence e automobili cappottate – si scontrano Serbia e Svizzera.
Eppure, soffermandosi su queste due nazioni in particolare, quanti chilometri percorre l’immaginario collettivo?
Pochi, pochissimi.
Da un lato sono i pascoli verdeggianti, mucche viola che sfornano cioccolato industriale, ingranaggi e rintocchi, bottegucce minute che danno su un corso ordinato, campanili e guardie variopinte, neutralità, mungiture e precisione; dall’altro sono le genitalità calde, distese di “vić” a ritmare i cognomi, raffiche di mortaio, incomunicabilità interetniche, Ak47 in spalla e vento maligno che spazza cumuli d’ossa nelle fosse.
Storie distanti, all’apparenza: troppo diverse per trovare punti in comune. Altro luogo comune vorrebbe che gli opposti si attraggano: confutato anch’esso.
Altro che attrazione: sul versante calcistico il punto di ebollizione ha una data precisa. Due nomi altrettanto precisi, quasi una filastrocca sospirata al vespro, due personaggi da cartone animato post-sovietico: Xhaka e Shaqiri, Shaqiri e Xhaka.
Kaliningrad, 22 giugno 2018.
Era un’altra Russia quella che ospitava i Mondiali del duemiladiciotto, forse neanche tanto.
Conosciamo a menadito le dinamiche, le manie di protagonismo e i totalitarismi annacquati dei giorni nostri. Qui non si intende offrire appigli ai vari Putin e Zelensky: l’uno stronzo quanto l’altro; l’uno verrà giudicato dalla storia, pure l’altro.
Sotto ogni sputo di cenere cova il fuoco del conflitto. Calcio e geopolitica marciano insieme, l’uno non prescinde dall’altra. Non che si voglia dire che il conflitto è il sale della storia, ma la storiografia poggia indiscutibilmente le sue evidenze sul conflitto.
Se la Federazione Jugoslava – poi mutilata dalla storia contemporanea – si è frammentata ritornando Serbia, perdendo finanche il Montenegro formato Germania 2006; la Svizzera ricopre il ruolo di porto sicuro, talvolta tutt’altro che disinteressato, mittel(extra)europeo che accoglie i transfughi d’ogni guerra (sia essa d’armi, di fame o di clima).
Nel caso, tornando ad appena sette giorni fa, chiedete a Breel Embolo: il primo calciatore a non festeggiare un gol in Nazionale, fattispecie controversa.
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Tornando all’estate di Kaliningrad, occorre rispolverare un detto: “Il diavolo fa le pentole, non i coperchi”.
Odioso e fuori luogo, nello specifico.
Quel giorno il diavolo fece pentole, manici e coperchi, redasse inviti, liste nozze ed approntò matrimoni principeschi. Due calciatori su tutti, quasi a simboleggiare l’odio residuo di quegli sporchi ’90, intesero celebrare le origini kosovare con un’esultanza particolare.
L’effetto farfalla traslato all’effetto aquila: lo sanno tutti, il battito d’ali d’un aquila divarica cicatrici mai rimarginate dal corso degli eventi.
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Ecco la sintesi, nel gesto che da bambini proiettavamo sul muro al lume di candela. Gesto che ha il retrogusto d’infanzie rubate e di biancheria ammucchiata alla rinfusa per sottrarsi alla guerra.
Il ragazzino che si annoia gioca di fantasia, segue con lo sguardo una crepa del muro. A volte, per affinare i sensi, la sfiora col dito e ne traccia il percorso: ruvido e familiare. Anche le crepe hanno una loro dialettica: a volte sono espressione di sofferenze strutturali della casa, in altri casi sono dettate da agenti esterni troppo invadenti per sentirsi al sicuro e restare.
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Eccola, l’aquila dell’UÇK scagliata in faccia all’aquila serba: la contraerea di una generazione a cui hanno sottratto la nazionalità.
Torniamo al punto di partenza, due aquile – benché sorelle – possono essere nemiche per natura e avere significati differenti: sopruso e resistenza, occupazione e scherno.
E in un calcio sempre più globalizzato, che annulla distanze tecniche e territoriali in nome di un quieto vivere che mortifica le radici: lunga vita alle macerie.