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di Giovanni Perna

“MIND THOSE MACCARONI. THEY’RE VERY IMPORTANT, YOU KNOW. THEY HAVE TO ARRIVE ON THE STAGE STEAMING, YOU HAVE TO BE ABLE TO SMELL THE AROMA. DO THEY KNOW HOW TO MAKE RAGU SAUCE IN LONDON?”
“Attento a quei maccheroni. Sono importantissimi, lo sai. Devono arrivare fumanti sulla scena, si deve sentire l’odore. Ma lo sanno a Londra come si fa il ragù?”
Caroline Moorhead – Black comedy al dente

Fu così, con questa nota per Franco Zeffirelli che si preparava a mettere in scena a Londra al Queen’s Theatre “Sabato, Domenica e Lunedì”, che Eduardo fece ricreare i vostri nonni.

Sì, i maccheroni col ragù.

Vi portava i suoni del nostro cuore, il profumo del cibo degli Dei.

Non è per rivendicare, ma giusto per puntualizzare. Noi le cose belle le abbiamo sempre condivise.

Parlare di casa del calcio, non ha senso, che slogan è mai questo? Se fosse casa vostra, dico io, avrebbe i colori della Giamaica. Ma questo è populismo becero, ognuno si pianga i guai di casa, che si chiamino Boris o Matteo.

“Home” suonava bene in un tempo lontano, quando c’era il challenge round a Wimbledon, quando nel calcio si favoleggiava di splendido isolamento.

Ah, a questo proposito vi volevo dire che stanotte forse avrete tanto a favore ma un fantasma contro. E che —per quanto memorabili le imprese di Zola e di Capello— il conto sarebbe meglio saldarlo in una finale.

Insomma, occhio ai fantasmi.

Un silenzioso immigrato di ritorno si schiererà davanti alla nostra difesa. Luisito Monti si chiamava.
Nel piovoso autunno di Highbury, nel 1934, Mussolini si fece accecare dalla vanagloria e costrinse Pozzo ad andare in quella trappola con etichetta di amichevole.

Oggi si fanno cento sostituzioni, allora non erano previste. E a Luisito spaccaste l’alluce praticamente all’inizio. E dopo 12’ eravate 3-0. Poi ve ne hanno date tante di mazzate e solo due di gol. Gli italiani uscirono da “leoni” ma sconfitti. Luisito non aveva detto niente, Pozzo lo buttò fuori a forza con lui che diceva: «Pongame un panuelo en la boca», per continuare a giocare senza urlare dal dolore.

Da fantasma, adesso, non credo senta più dolore. And I’m afraid we’ll be 12 to play, gentlemen.

di Antonello Perna

Quando erano in studio, ai due autori del gruppo venne il blocco creativo.

Il disco che avrebbero voluto fare era chiaro, almeno in testa. Non sapevano, però, come metterlo giù. Avevano licenziato il loro produttore, i testi erano in testa – doveroso il gioco di parole – ma proprio non volevano uscire.

E allora? Che si fa.

Quello che, con una sala di incisione ha ben poco a che fare: si prende un pallone, si va al campo del circolo di quartiere – quello di fronte agli studi – e si gioca contro una bandaccia di ragazzini sporchi.

Così, per giorni, a scervellarsi per il suono, per i soldi. Fin verso le 4, sapevano che quei ragazzini avrebbero bussato, pallone sotto braccio, alle porte del Vanilla’s Studio.

Finivano la partitella, si ripulivano dal fango e ricominciavano a comporre.

“Se in quel disco abbiamo suonato come un corpo solo lo dobbiamo a quelle partitelle davanti lo studio Pimlico “.

Le persone in blocco creativo si chiamavano Joe, detto Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e il più talentuoso come calciatore, Topper Headon.

Il disco che – fra polvere e graffi – crearono, diventò il disco di musica rock più importante del secolo: si chiamava London Calling.

Ah, loro – per chi non lo sapesse – si chiamavano i Clash.

Ecco, da una stronzata come una sfidetta è nata una creatura che – per molti di noi – ha cambiato il modo di stare al mondo. Ecco con chi ci dobbiamo rapportare stasera. Con chi ci ha fatto cambiare le coscienze, con chi ha condizionato il nostro modo di vedere il corso degli eventi.

Perché, pur non ammettendolo, a quell’Isola ci siamo sempre rapportati. Li abbiamo odiati, amati, ci siamo emozionati.

Ci hanno regalato delle perle, confezionate in libri o dischi o film.

Dobbiamo confrontarci con quella che, per molti, è stata gioventù, con il tempo che passa, con le fughe mentali da una cittadina di provincia. Ora è venuto quel momento unico, irripetibile, storico. Dobbiamo, per forza, fare una cosa. Solo Una. Schiattare la capa alla perfida albione e alzare ‘sta coppa.

E poi rimettere sulla puntina Train in Vain.

di Ciro Romano

L’Italia vincerà per Lucio Impero, che ha gli stessi quattro anni del papà nell’82.

Televisore a bassa definizione, un prato verde ed immenso, undici eroi all’assalto all’arma bianca. Con occhi inconsapevoli il bimbo dell’82 sapeva già d’amare. D’amare quel Gioco lì, bello e maledetto come nemmeno le donne sarebbero state. Vinse pure lui, il bimbo dell’82 nel cui destino c’era la Nazionale in Maglia Granata. Vinse e non si voltò più indietro: sposò l’amore per il Gioco e quel Gioco lo fece uomo.

Lucio Impero è figlio dell’HD, dei dispositivi digitali, della modernità che ha rovinato pure il Gioco. Il Gioco lo guarda, ma non lo capisce. Colpa del papà, innamorato tradito da chi ha messo il Gioco sul marciapiede e con esso la Nazionale in Maglia Granata. Che non ha smesso d’amare e della quale gli parla, ma solo ogni tanto.

L’Italia vincerà perché Lucio Impero è figlio della claustrofobia dei parchi chiusi e delle maestre a distanza. Il suo papà aveva tanto in meno e tutto ciò che conta di più: l’82 servì solo ad accorgersene.

E se la Storia s’interseca col Pallone o forse è viceversa, l’Italia vincerà perché Lucio Impero s’accorga d’amare, ed il suo cuore sarà libero.

E semmai non vincerà, come proprio un Inglese ci ha spiegato, ci sarà sempre un’altra partita, un altro campionato, e sarà rassicurante.

Perché noi che non viviamo di Calcio, senza il Calcio non sappiamo vivere.

di Alfredo Mercurio

Londra, interno pomeriggio.

Fu semplice capriccio? Affidiamo il dubbio alla prescrizione della memoria. Fui uno dei tanti, uno fra i tanti italiani all’estero: nel tempo in cui la Union Jack rappresentò il paradiso artificiale dei 22 anni.

Mesi interi a litigare col frigorifero – una Death Valley da sbrinare ogni 10 giorni – e con lo chef stellato a cui prestavo forza lavoro.

Motivo di emancipazione sociale e culturale: Inghilterra – Italia del 2012.

Vissuta dall’affollata cucina di Colville Road numero 21, viottolo decentrato di Leyton, un po’ Brignano – considerati cimitero e passaggio a livello – un po’ tana dell’Orient.

Comunque, una ciurma di anime eterogenee, roba da far invidia ai bimbi sperduti o alla più banale delle barzellette rompighiaccio. Tre salernitani (fra cui l’amico di una vita), un catanese, un brindisino costantemente in mutande, un altoatesino, un maceratese, una francese, due spagnole, una giapponese, un somalo con la parlata di Pieraccioni (croce sul cuore, non fu l’effetto di una pinta di troppo, meraviglie dell’universo multiculturale).

Tutti insieme “avvinazzatamente” a far di conto con la Storia, quella che – di soppiatto – ti investe e non sai spiegarti come.

Jump cut, torniamo al prima.

L’Asda, costola proletaria di Buckingham, non un supermercato. Il supermercato.

Corridoi lunghissimi, l’imbarazzo della scelta o la scelta imbarazzante, fate voi: Garlic Sauce e Fettuccine Alfredo’s – di buono solo il nome – come se piovesse. In Britannia, del resto, il cibo è nutrimento. Non piacere.

I fusti di Carlsberg, piuttosto. Quelli sì che rappresentarono l’Eldorado.

Interno sera, cucina gremita.

Si è già detto. Mai amati gli inni, sempre visti con l’occhio torvo di chi ripudia nazionalismi e affini. Eppure.

Eppure quella sera si urlò, eccome se si urlò. Un’unica voce, compatta: dal “Fratelli” al “Poropò”, dallo “Stringiamci” al convintissimo “”.

La gara, poi, un complesso annebbiato – classico grigiore londinese con retrogusto Lemon Haze – da cui si stagliano ben cinque momenti: il palo di De Rossi allegato a un “Pataterno” che fece rintoccare le campane di St. Paul, il riflesso felino di Buffon con annesso urlo liberatorio che sbiancò le paonazze gote del Principe Carlo, il calo di tensione che ci fece perdere quasi tutti i rigori, l’esultanza collettiva per la corrente ritrovata e la corsa di Alino verso l’abbraccio collettivo.

Il delirio di quella sera portò in dote più frutti: petto in fuori e testa alta nonostante occupassimo l’ultimo gradino della scala sociale, l’esasperazione di quella gestualità insita nel nostro DNA mimando il cucchiaio di Pirlo, la cacciata da Colville Road.

Per alcuni fu Warren, per me fu Ruckholt. Sempre Road – altroché – ma molto, molto, molto più isolata.

Fu castigo da espiare, è vero. Addolcito, però, da un sorriso fra i denti e l’incredulità di un “AFAMMOCC”. Una bandiera di meraviglia stampata sulle labbra.

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