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Lo siento mucho | Italia-Spagna

Bisogna toccarsi perché ci sono tutte le condizioni. La partenza da outsider, la crescita progressiva, la sofferenza contro la più scarsa delle contendenti, il migliore dei tuoi che si rompe per strada.

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LO SIENTO MUCHO
LO SIENTO MUCHO
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Da qualche parte nel mar Egeo

Secondo me, dovremmo giocare col lutto a braccio. Noi e loro.
È vero, probabilmente era lei il filo rosso che ci unisce. A noi ci ha cresciuti tutti, indossando con stile la casacca col numero 1. Per voi? Per voi ha rappresentato la gioia, la voglia di far festa di un Paese che usciva dalla dittatura.
Ola Raffaella, lo siento mucho.
Vuol dire: «mi dispiace».
È un’espressione imparata anni fa. Con una premessa.
Io sono come Jamie Lee Curtis. Non nel fenotipo, spiritosi.
Io sono come Jamie Lee Curtis in “Un pesce di nome Wanda”.

Versione doppiata, eh, nell’originale Kevin Kline usa l’italiano. Bene, non andiamo fuori tema.

Il fatto è che quando sento parlare in quella lingua, si parte col cervello. Sarà il suono, saranno gli occhi consumati sulle poesie di Neruda.

Non vi sentite morire? Avete un sacchetto di patatine —di quelli che passano di mano pieni di soldi sugli autogrill— al posto del cuore.
E “lo siento mucho” l’ho imparato da una ragazza spagnola che mi svacantò l’espresso caldo su un bermuda in una piazza di Madrid.
Difficile dimenticare come lo disse, veniva da chiedere scusa tu a lei.
Era estate, tempo di indignados. A Salerno, qualche giorno prima, nessuno si indignò, primo tra tutti lo scrivente.

Non ci sarà indulto, ne sono consapevole, ma dieci anni sono tanti pure per un errore di valutazione.
Fuori tema ancora, uff. È il mio destino.
Riannodo. Italia-Spagna, la lingua, l’estate.
Una voce ed un volto di donna che irrompono in questa calura per lasciare il segno. Siamo tutti,— o lo siamo stati che importa?— provinciali dentro, prigionieri di una fantasia. Che ogni tanto magicamente passa da qui. A dirci che allora può succedere, anche se dura il tempo di un soffio di scirocco che lascia segni duraturi sul cuore.
Per questo la Marisol di “Un sacco bello”, la Penelope de “Il Ciclone” hanno scassato ai botteghini.
Perché siamo tutti Ceccherini col bidone del ramato sulle spalle.

E allora lo siento mucho il fatto che oggi vi dovremo aprire in due.
Per entrare nella parte stanotte mi è toccato sognare Sergi Busquets, che sulle scatole mi sta assai.

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Diversamente, è roba tosta volere il vostro male, sia pur calcistico.
È assurdo come insultare Vanessa Incontrada per il suo aspetto fisico.

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Aspè, mi dicono dalla regia che tale stronzata sia non solo accaduta, ma reiterata.
Dico sì, geni, non vi viene più facile insultare Busquets?
A me sì, è il salvacondotto Busquets.
E comunque, l’estate ed Italia-Spagna. Senza l’idioma. Anzi, in inglese (ops).
Ne ho vissuto un’altra di Italia-Spagna estiva e lontano da casa.
Stavo al Lake Tahoe nel 1994, in una bellissima casa di legno sul lago ed un barbecue imperiale che non sapevo accendere.
La carne al sangue però la fece vedere l’ESPN. Era quella del signore che stasera siederà sulla loro panca. Ci pensò il vice allenatore dell’Ucraina —e quanto mi sarebbe piaciuto rivederli di fronte— e se ricordo bene era al sangue assai.

Ripenso con nostalgia a quella esultanza scomposta, solitaria e mattutina, dal lato che affacciava sul lago.
Ed alla costosissima telefonata intercontinentale per condividere urlo e gioia con un amico che non c’è più.
Accade d’estate pure questa volta —per me un poco più tardi che da voi in Italia— e lo siento mucho perché sono scaramantico.
Bisogna toccarsi perché ci sono tutte le condizioni. La partenza da outsider, la crescita progressiva, la sofferenza contro la più scarsa delle contendenti, il migliore dei tuoi che si rompe per strada.
Ecco, prima di Italia-Belgio Italo Cucci aveva scritto: «Vinca il migliore? Speriamo di no».
Ecco, stavolta speriamo di sì. Ma occorrono scongiuri e manovre diversive.
Non dovesse bastarmi Busquets, rilancio con gli anatemi verso nani, ballerine e carcerieri di una cosa che amo infinitamente più dell’Italia.
E mentre le telecamere scorreranno in panoramica sui volti dei protagonisti, io, che non so più gridare per il calcio, che odio cantare l’inno in coro come per seguire una moda, sussurrerò, immotivata, fuori contesto, necessaria per l’anima, con voce ferma, la mia laica preghiera:

Liberate la Salernitana.

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Nato nel 1964, professione ortopedico. Curioso ma pigro. Ama svisceratamente Salerno e la Salernitana. Come sempre accade quando un amore è passionale, è sempre piuttosto critico nei confronti di entrambe.