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Hygge.

Vi siete mai chiesti perché, quando vedete una partita della Danimarca, i giocatori sono sempre un gruppo unito e sorridente?

Hanno questa parola qui nel vocabolario. Intanto si pronuncia Hugga e significa calore. Non quello meteorologico, quello che nasce tra le persone. Fanno in modo che nasca nelle maniere più semplici: una birra, un gruppo di persone si raccontano, si parlano e crescono insieme come comunità.

Perché loro non si considerano un popolo ma una comunità.

Quella che c’è sempre per l’altro, quella che non divide, non crea divisioni, che ingloba, che aiuta chi è più debole.

Una mia amica, fotografa danese, mi diceva ultimamente che le facevano ridere le reazioni social a questa foto:

Mi ha scritto, semplicemente: “Ma perché vi meravigliate? Noi siamo fatti così”.

Sì, i Danesi sono proprio così. Si aiutano, restano uniti sempre e soprattutto si PARLANO.

Ecco, ci pensavo a proposito di quello che sta succedendo nella mia città. Ecco, la hygge non sanno neanche dove sta di casa. Avevamo una meravigliosa occasione per far vedere al mondo – sì, perché se fai parte della Serie A i riflettori non sono più puntati fino a Scafati – di dimostrare che, oltre alla tanto decantata e abusata cazzimma, possedevamo anche un poì di hygge.

Potevamo essere così, umani.

Ma abbiamo deciso, con la precisione chirurgica di un bisturi, di non farlo.

Abbiamo deciso di restare su posizioni, troppo spesso, dettate da interessi personali. Abbiamo deciso di non avere dentro, né soprattutto di tirarlo fuori, quel calore che un popolo come quello danese – al netto delle latitudini – riesce ad avere.

E, magari, mostrarlo al mondo.

L’altra squadra, invece, è la perfetta antitesi della hygge. È una squadra di ragazzoni super pagati, vengono trattati da superstar.

Faccio coming out: a me la nazionale inglese non è mai piaciuta. Salvo rare eccezioni, tipo quando giocava un ragazzo grassottello con la numero 8 capace di fare questo:

Ma anche questo:

Insomma, inutile tergiversare, non li ho mai amati. Soprattutto, non ho mai amato quel mix di trash e birra sgasata: carta d’identità propria della loro tifoseria.

Una volta ho letto una riflessione di John King, diceva che i tifosi della nazionale Inglese non hanno niente a che spartire con chi il sabato, in inverno, va a allo stadio. Ha ragione lui.

Non mi piace, del resto, il loro atteggiamento di superiorità rispetto al gioco. Quella canzone del ’96 “Football’s coming home” è un oltraggio alla musica pop.

Nel periodo in cui questa canzone era al numero 1 in Inghilterra, gli Oasis a Knebworth fecero due concerti davanti a 125mila persone. Tanto per dire.

Siccome il signore con la numero 8 non gioca più, a casa mia – in tempi non sospetti – tramite figlio si veneravano le opere e le parole di questo signore qua:

Beh, ora che conoscete le mie preferenze, dovessi giocarmi un paio d’euro per una bolletta li punterei su di loro.

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Giusto per comprare un paio di bevande, sedermi in un bar con un paio di amici e sentir raccontare.

Bisognerebbe, in conclusione, che tanta hygge entri nelle nostre vite.

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